L'ultima canzone

di Siddharth Dhanvant Shanghvi

"In questa vita, mia cara, non c'è pietà".

Non abbiamo dubbi della spietatezza del destino fin dalle prime pagine del libro, quando una madre saluta sua figlia, destinata a un ottimo matrimonio, con queste parole.

E ne saremo consapevoli per tutte le pagine dell'Ultima canzone, il romanzo d'esordio di Siddharth Dhanvant Shanghvi.

È una storia esuberante, sensuale e dolorosa, di una famiglia nell'India degli anni Venti, scritta in modo particolare, con un linguaggio pieno di metafore, esuberante a sua volta, ridondante e affascinante come un lussureggiante giardino tropicale dopo le piogge monsoniche.
(Ma io, che pure amo un stile barocco - tipo Rushdie - l'ho trovato un po' lezioso e talvolta eccessivo.)


All'inizio la protagonista è la bella Anuradha, che lascia la sua famiglia di Udaipur per sposare Vadhmaan, un giovane medico di Bombay.
Tutto sembra funzionare alla grande: un matrimonio perfetto, con sposi bellissimi e innamorati, e un bambino altrettanto meraviglioso.

Ma una disgrazia segnerà la loro vita, e da quel momento in poi non riusciranno più a essere vicini, ognuno perso nel proprio incomunicabile dolore.
Vadhmaan si ritirerà in un silenzio doloroso, e sparirà sempre più dalle pagine del libro, anche se la sua assenza sarà sempre lì fra le pagine, a raccontarci di un vuoto incolmabile.

Sarà allora Nandini, la cugina orfana di Anuradha a tenere la scena: un personaggio eccentrico, anticonformista, selvaggio, ambizioso e attraente, che in poco tempo diventa una star fra gli artisti e i personaggi dell'alta società. 
Ma anche lei, come tutti gli altri personaggi, scoprirà  di essere fragile di fronte al destino e la sua disgrazia verrà dal passato: a dire che alla fine nessuno è salvo.

Alle vicende dei personaggi si intreccia l'elemento magico, che però la narrazione fa sembrare del tutto naturale: non avremo problemi a credere a una casa maledetta, portatrice del dolore lontano di una morte d'amore, che vuole uccidere i suoi abitanti, né a ragazze che camminano sulle acque o si accoppiano con una pantera.

Per me uno degli aspetti più interessanti è la descrizione della società indiana degli anni Venti, lontana da ogni tipo di stereotipo, con feste a cui partecipano personaggi eccentrici ed eleganti, pittori afgani o artiste perennemente immerse in una vasca di porcellana.
Ma il romanzo descrive con rispetto anche personaggi più semplici e spontanei, come Pallavi, la gentile amica vicina di casa, e Sherman, l'irlandese che fa volare aquiloni e legge Yeats.

Ho letto prima il secondo romanzo di Shanghvi, I fenicotteri di Bombay, e poi questo, che è stato il suo romanzo d'esordio. 
Alcune situazioni ricorrono in entrambi i romanzi: il fallimento di chi era felice o famoso, la morte di un figlio, le feste eccentriche, una certa esuberanza della scrittura, i cambiamenti di tono (dall'umorismo alla tragedia al lirismo), i continui rimandi sessuali, che qui ho trovato fuori luogo solo qualche volta e nei Fenicotteri molto più spesso.

Alla fine L'ultima canzone mi è sembrato più autentico, e mi ha commosso la dolcezza finale con cui descrive come il dolore si impossessa di tutti.
È alla fine, infatti, che ci chiediamo se l'amore e l'amicizia non bastino da soli a superare i drammi della vita, e ammettiamo che, forse, l'amore più profondo è quello che si esprime nella solitudine del silenzio.


Siddharth Dhanvant Shanghvi, L'ultima canzone, Garzanti 2004
Traduzione di Alberto Cristofori
pp 320, € 14.50 

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