La protesta degli scrittori indiani

Invece di parlare di un libro specifico, oggi vi racconto che cosa stanno combinando i nostri amati scrittori indiani in queste ultime settimane.

Il 6 ottobre ha iniziato Nayantara Sahgal, autrice del romanzo “Il giorno dell’ombra”, che parla delle difficoltà di una donna dell'élite indiana in un mondo in trasformazione e che le valse nel 1986 il Sahitya Akademi Award.
Per prima ha restituito il premio della Sahitya Akademi, l’istituzione letteraria più prestigiosa in India che ogni anno assegna un premio a uno scrittore per ognuna delle lingue indiane previste dalla Costituzione. Il premio consiste in 100mila rupie e in una targa.

Più di 40 scrittori indiani hanno seguito il suo esempio e hanno restituito i loro premi per protestare contro la Sahitya Akademi, che riceve finanziamenti dal governo e che non ha condannato i recenti episodi di violenza che secondo gli scrittori minacciano la libertà di espressione in India.

Il 25 agosto 2015 lo scrittore Malleshappa Madivalappa Kalburgi è stato ucciso con un colpo di pistola nella sua casa nello Stato del Karnataka, probabilmente da fondamentalisti hindu, in risposta ad alcuni suoi libri che criticano alcune pratiche dell’induismo.
Kalburgi scriveva in lingua kannada e aveva lui stesso vinto il premio della Sahitya Akademi nel 2006. Era considerato uno scrittore laico e "razionalista" e aveva già ricevuto minacce per i suoi libri.



Altri due scrittori, Narendra Dabholkar e Govind Pansare, sono stati uccisi negli ultimi due anni da ignoti, probabilmente per le loro idee laiche.

Ultimamente, anche se non in campo letterario, un altro tragico omicidio è avvenuto a Dadri, in Uttar Pradesh, dove Mohammad Akhlaq, musulmano, è stato linciato da una folla inferocita, per il solo sospetto che possedesse carne di manzo, cosa sacrilega per chi ritiene che i bovini siano sacri (e poi manzo non era neanche, e anche se lo fosse stato...).

Gli scrittori accusano il primo ministro Narendra Modi di essere pronto a chiudere un occhio, se non due, sugli episodi di violenza dei fondamentalisti hindu.

Alla protesta degli scrittori si sono poi uniti anche artisti, scienziati, personaggi del mondo del cinema, accademici e storici, che denunciano manipolazioni nella narrazione della storia indiana.

Per unirsi alla protesta, molti intellettuali hanno restituito ogni sorta di premio ricevuto, non solo dalla Sahitya Akademi, ma da ogni istituzione indiana. 

Anche Arundhati Roy ha restituito il suo premio cinematografico vinto nel 1989 per la sceneggiatura del film In Which Annie Gives it Those Ones, denunciando con un editoriale su The Indian Express la politica del governo nei confronti delle minoranze etniche e religiose e dei dalit, costretti a vivere in un clima di terrore.

Amitav Ghosh si è detto solidale alla protesta, ma non ha restituito il suo Sahitya Akademi Award, vinto nel 1990 per il suo bellissimo romanzo Le linee d'ombra.
Amitav Ghosh ha motivato dicendo che la sua protesta è nei confronti dell'attuale presidenza dell'Akademi, mentre stima profondamente gli scrittori che presiedevano l'Akademi all'epoca in cui vinse il premio.  

Vikram Seth ha affermato che restituirà il suo premio, vinto nel 1988 per il suo poema The golden gate, se la Sahitya Akademi non farà niente per proteggere la vita e i diritti degli scrittori. 

Anche Salman Rushdie, che ha vissuto sulla sue pelle l’intolleranza religiosa con il caso dei “Versi satanici”, si è unito alla protesta degli intellettuali indiani per denunciare un clima che va contro la libertà di espressione, pur non avendo personalmente nessun premio da restituire alle istituzioni indiane.

Il 2 novembre anche la star di Bollywood Shah Rukh Khan, intervistato per il suo cinquantesimo compleanno, è stato coinvolto nella questione: ha affermato di non avere l’intenzione di restituire i suoi premi, ma di constatare un clima di “estrema intolleranza”. 
Kailash Vijayvargiya, un leader del BJP, il partito al governo, ha immediatamente confermato questo clima con un tweet in cui affermava che "Shah Rukh lives in India, but his soul is in Pakistan" ("Shah Rukh vive in India, ma la sua anima è in Pakistan" - l'attore è musulmano).
I "returnees" (quelli che hanno restituito i premi) vengono a loro volta accusati di essere antinazionalisti, di volersi fare pubblicità o di voler strumentalizzare questi singoli “incidenti” in chiave politica contro il governo Modi, quando invece non hanno denunciato allo stesso modo il Partito del Congresso e le sue nefandezze nel passato.
Le critiche si rivolgono in modo particolare proprio a Nayantara Sahgal, che è la nipote di Nehru e che ha ricevuto il premio nel 1986, poco dopo il massacro dei Sikh compiuto da sua cugina Indira Gandhi nel 1984. 
Nayantara Sahgal all'epoca si era però dissociata pubblicamente dalla politica del Congresso. 

Arundhati Roy, poi, è decisamente al di sopra di ogni sospetto: aveva già rifiutato nel 2005 il premio che la Sahitya Akademi le avrebbe dato per la sua raccolta di saggi L'algebra della giustizia infinita,  e da sempre contesta le politiche neoliberiste del govermo indiano, Congresso o BJP che sia. 

Sembra siano tempi difficili per la libertà di espressione, che i fondamentalismi attaccano in nome di princìpi religiosi, spesso completamente deformati.
Che questi princìpi siano hindu, cattolici o islamici, la storia è molto simile.

Io non ho premi da restituire e, oltre ad appoggiare moralmente questa protesta, l'unica cosa che mi viene in mente di fare per stare dalla parte degli scrittori è proprio quella che più mi piace: leggere.

Come racconta Rushdie in Joseph Anton, il massimo sostegno che gli si potesse dare quando viveva in pericolo di vita non era prendere parte a campagne in suo favore, ma semplicemente leggere I versi satanici
Perché la libertà di espressione, la libertà di scrivere è una conseguenza della libertà di leggere.

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