Il buio non fa paura

di Shashi Deshpande

Mi è capitato più volte. In mezzo ai discorsi sull'autenticità dell'Indian writing in English, quando amici indiani mi storcono il naso di fronte ad Arundhati Roy o a Kiran Desai, chiedo di dirmi una scrittice a loro avviso più "autenticamente indiana". Esce spesso il suo nome. Shashi Deshpande. "Lei scrive sì che per gli indiani, non per compiacere un pubblico occidentale e vincere premi internazionali", dicono.
Ho visto ora che è appena stato ripubblicato dalle edizioni e/o un suo romanzo del 1980, Dark holds no terror, che avevo letto nella vecchia edizione di Theoria presa in prestito dalla biblioteca, con il titolo Il buio non fa paura. Il romanzo è stato ora ritradotto con il titolo Il buio non nasconde paure.





Di Shashi Deshpande si può dire che in realtà ha qualche annetto in più di Arundhati Roy e Kiran Desai (è del 1938, quindi se mai è della generazione della Desai madre, Anita) e che nei suoi romanzi ha spesso raccontato il ruolo della donna nella società indiana, senza mai accennare discorsi femministi, né scrivere unicamente per lettrici donne. Lei stessa dice: "Non mi piace essere chiamata una scrittice femminista. Sono femminista, ma non scrivo per propagandare un ismo."
(potrebbe funzionare anche dal mio punto di vista che leggo: sono femminista, ma non sono una lettrice femminista)

Ma veniamo al libro.
Il buio non fa paura è la storia di Saru, donna intelligente e determinata, che vive però in un sistema dove, di fatto, la parità dei sessi non è contemplata.
Saru, con una valigia in mano, torna a casa dal padre, dopo che la madre è morta. Non sa neanche lei bene perché, ha forse solo bisogno di scappare per un po' dalla sua vita, dal suo successo professionale come medico, dalla sua vita borghese con il marito e i due bambini, dal suo ruolo in cui si è ritrovata senza neanche rendersene conto. O forse torna a casa per regolare finalmente i conti con tutto, con la madre che l'ha ripudiata e con un padre comprensivo ma che non sa farsi valere.

E così inizia il racconto del suo passato, anzi, i racconti, i pezzi di racconti: l'infanzia, la scuola e l'università, la morte di un fratellino che aveva paura del buio, il matrimonio ribelle contro ogni regola sociale e il volere della madre, le violenze notturne del marito sadico a cui non sa opporre resistenza, i sensi di colpa per le troppe paure nascoste, le regole di una società dove donne devono sempre stare un passo in dietro al loro marito, il perdono della madre mai ottenuto, la normalità che scivola via, lentamente, su tutta la vita.

A volte in terza persona, a volte in prima, direttamente dalla sua voce. Poi le due persone si mescolano, così come si mescolano i ricordi, come le parole si avviluppano e girano intorno a ricordi dolorosi, a dubbi mai risolti.
E per Saru non c'è niente altro da fare: prima o poi, quel buio lo dovrà affrontare, è l'unica strada per trovare se stessa.

Commenti

  1. Pensa che l'ho appena comprato in libreria!
    Quando l'ho letto ti faccio sapere...

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  2. ciao Silvia, sono stato silenzioso per un po' a causa di un viaggio all'estero ma eccomi di ritorno. Intervengo su varie questioni:
    - Shashi Deshpande. Avere la prima edizione di "Il buio non mi fa paura” (Theoria, 1997) mi fa sentire un po' vecchio. Ma segnalo ai lettori di Indianwords anche il suo romanzo "Piccoli rimedi" (Giunti 2001).
    - Chitra Divakaruni: Einaudi pubblicò anni fa l'ormai famoso "Maga delle spezie" (romanzo che entrambi abbiamo amato, credo) e poi continuò con "Sorella del mio cuore" e con "Il fiore del desiderio". Ora, mi piacerebbe che tu o qualcun altro mi deste un parere sul suo "Il palazzo delle illusioni" (sempre Einaudi"). Il tempo che ho a disposizione è sempre poco, i libri da leggere molti: secondo te/voi vale la pena di leggerlo o no?
    - Segnalo inoltre l'uscita di un'interessante antologia di AA. VV., "Eerbacce. Racconti indiani", edito da Gaffi nella collana Godot. Ne parlerò più diffusamente nel mio blog Milleorienti.
    - Infine, riguardo alla tua autodefinizione di " femminista". io invece non lo sono, senza polemica. Dando per assodato tutto il valore e i valori trasmessici dal movimento femminista (e quanto resta da fare nel campo della affermazione delle donne) io mi sento - scusa la parola abusata - postmoderno. Nel senso che credo che, nella dialettica fra i sessi, dovremmo rivisitare certi gesti della tradizione svuotandoli di ogni valenza di potere machista, e - magari attraverso un pizzico di ironia - conferire a quei gesti un significato nuovo e diverso. Usare il suono di una parola dandole un nuovo significato - ma senza azzerare tutto, perché le lingue tagliate portano all'incomunicabilità. Diciamo che io sono uno che apre la porta alle signore senza che questo gesto comporti una malintesa affermazione di inferiorità.
    Beh, discorso lungo, che meriterebbe ben altri approfondimenti.
    Poi, devo dirti che la letteratura femminista indiana mi ha un po' stancato, e che preferisco i "Giochi sacri" di Vikram Chandra, come esempio di autore originale e autenticamente indiano. ma anche questo è un discorso lungo...

    Attendo il tuo parere, un caro saluto a te e a tutte/i

    Marco Restelli

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  3. Elisa, fammi sapere!

    Marco, bentornato!
    -Dai, non sei così vecchio! Anche io l'ho letto in quella edizione: è "vecchia" solo nel senso che ora ce n'è una più nuova... E visto che ci siamo, allora segnaliamo anche l'altro suo libro tradotto in italiano, "Questione di tempo", sempre delle edizioni Theoria, 1999.

    -Sulla Divakaruni ho delle riserve. "La Maga delle Spezie" mi è piaciuto molto all'inizio, ma poi mi ha deluso dalla metà in poi: alla fine l'ho trovato un po' banale. Se qualcuno asserisce che si può prendere Shashi Deshpande come esempio di scrittice "autenticamente indiana" (anche se devo ancora capire che cosa significhi – una possibile definizione è che scriva per gli indiani), la Divakaruni per me è l'esempio principe di chi invece scrive di cose esotiche indiane per affascinare il lettore occidentale calcando la mano su spezie, sari e matrimoni combinati (è interessante notare che invece questi aspetti "esotici" sono del tutto assenti in Shashi Deshpande).
    Sicuramente ha una scrittura affascinante, molto da scuola di scrittura creativa (che infatti mi sembra insegni), che io non disdegno per niente, anzi apprezzo anche (a patto che ci sia anche il resto, cioè il contenuto).
    Sinceramente quindi non so se leggerò il suo ultimo libro uscito (per l'appunto, i libri sono tanti e il tempo per leggerli poco), ho letto che dentro c'é qualche intruglio di Mahabharata e un po' temo... A meno che tu o qualcun altro non mi convinciate a farlo!

    - Grazie per la segnalazione dell'uscita dell'antologia, aspetto fiduciosa di leggerne sul tuo blog!

    - In quanto a parola abusata, nonché trita e ritrita e svuotata di ogni significato, penso che femminista la vinca alla grande su postmodermo... Però, lessicalmente parlando, ha i suoi indubbi vantaggi: si può anche usare come termine dispregiativo o ancora meglio come insulto!
    Con la mia autodefinizione non intendevo in realtà dire niente di più se non esprimere la mia riconoscenza alle femministe che, venute molto prima di me, hanno lottato per farmi avere dei diritti di base (mi fa sempre pensare che le mie nonne per un lungo periodo, pur essendo maggiorenni, non hanno potuto votare – e da qui tutto il resto, che è molto peggio). Ed esprimere anche la mia ammirazione nei confronti delle femministe indiane (e di altri paesi) che si battono per diritti ancora più di base (penso agli infanticidi, agli aborti selettivi, agli omicidi a scopo di dote).
    Sono d'accordo che oggi si dovrebbero forse rimettere in discussione alcuni atteggiamenti, ma ancora penso che questo possa essere fatto nel solco di un certo "femminismo", dove intendo, ancora una volta, il messaggio di una parità di diritti, che viene da lontano e che ha avuto anche un certo spessore culturale, nonostante si possano rifiutare certi eccessi o chiusure (che fanno poi parte di qualsiasi movimento mai esistito sulla faccia della terra).
    Detto questo, non leggo "letteratura femminista" di preferenza, almeno non dichiaratamente tale. Mi è piaciuto questo libro proprio perchè riesce a parlare di argomenti delicati senza mai voler fare denuncia o tanto meno propaganda.

    - Su "Giochi sacri" sfondi una porta spalancata! Non sono sicura che sia "autenticamente indiano" (per esempio non è così amato o conosciuto in India come all'estero), è comunque influenzato da uno stile e da un pensiero occidentale, ma il suo merito secondo me sta proprio nell'originalità e nell'aver saputo fondere generi e stili diversi, nell'aver sfruttato tutti i meandri di un genere, il poliziesco, per creare grande romanzo universale.
    Detto questo, di "Giochi sacri" ne ho parlato fino alla nausea (per gli altri, non per me, io potrei non finire mai), ho convinto se non obbligato tutti amici e conoscenti a leggerlo, ho infestato il web di mie lodi e recensioni...
    Quindi se vuoi sono qui per parlarne, anche nei dettagli minuti, se hai voglia!

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  4. ah, scusa, Marco, ho visto che hai già scritto di "Erbacce", bravissimo!

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  5. Sono d'accordissimo con te sulla "Maga delle Spezie". Ho avuto la stessa identica sensazione e la delusione finale per la banalità della conclusione. Il "palazzo delle illusioni" mi pare che tratti proprio di un racconto preso dal Mahabarata e romanzato. Altro che intruglio!

    Sul femminismo, per quanto abusata possa essere la parola, temo che in India ce ne sia purtroppo molto bisogno. Prima di poter andare avanti, certe conquiste vanno fatte e la situazione femminile in India è chiaramente molto problematica. E non parlo di diritti politici: magari fossero solo quelli il problema!

    Detto questo, anche se Arundaty Roy è un'attivista politica, anche se "Il Dio delle piccole cose" fosse scritto solo per compiacere lettori occidentali, per me è e resta meraviglioso. Tra l'altro non condivido l'idea che uno scrittore indiano sia tale solo se scrive "per gli indiani". Uno scrittore è uno scrittore se arriva al cuore di chi legge, di qualunque nazionalità sia. Arundhati Roy ci arriva. Forse è quello che lei vuole trasmettere che, infondo, è "occidentale", perchè è dall'occidente che arriva l'idea di parità, davvero poco "indiana".
    Di Shashi Deshpande non saprei.... :)

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  6. Luisa,
    sicuramente di femminismo c'è ancora tanto, troppo bisogno, in India e in molti altri paesi. E per la verità anche da noi...

    La questione dell'autenticità è una cosa che sta molto a cuore agli indiani. A noi arrivano le polemiche come quella per The millionaire o per la Tigre bianca, ma sembra essere una costante del dibattito letterario (ne leggo in continuazione su riviste letterarie e soprattutto sui blog di lettori indiani che mi diverto a bazzicare). Certo a noi forse non interessa più di tanto, dal momento che un libro ci è piaciuto e ci ha detto qualcosa.
    Immagino che a loro dia fastidio che siano certi libri e non altri più "indiani" ad essere conosciuti in Occidente e che tengano molto a dare una certa immagine del loro Paese.
    Non sono giudizi letterari, secondo me.
    Non ho ben chiaro neanche io, nonostante ne parli in continuazione, che cosa sia "autenticamente indiano".
    So che anche nei confronti di Arundhati Roy c'è una certa ambivalenza in India: mentre da noi praticamente tutti considerano Il Dio delle Piccole Cose un libro meraviglioso (me compresa!), in India ci sono delle riserve.
    Forse questi dibattiti sono un po' sterili, ma alla fine mi piace anche seguirli, perché a volte capisco più dell'India da questi discorsi che non dai libri stessi.

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