Il miracolo della letteratura indiana contemporanea

Ovvero la mia personalissima visione della letteratura indiana contemporanea in lingua inglese

Ormai dieci anni fa, nel maggio 1997, si incontrarono a Londra undici scrittori indiani provenienti da diverse parti del mondo: fra gli altri, erano presenti Arundhati Roy, Rohinton Mistry, Vikram Seth, Amitav Ghosh, Vikram Chandra. Su tutti, poi, troneggiava il rinomatissimo Salman Rushdie.

L’incontro era organizzato dal New Yorker per celebrare, nel cinquantesimo anniversario dell’indipendenza dell’India, il miracolo della letteratura indiana contemporanea in lingua inglese. A dire la verità, molti di questi scrittori non abitavano ormai più da tempo in India ed erano presenti scrittori anche non di nazionalità indiana ma provenienti da altri paesi sub-continente (Sri Lanka e Pakistan).

L’organizzatore dell’incontro non seppe dire perché aveva scelto proprio quegli undici, né che cosa accumunava i vari autori, trovando estremamente difficile definire temi comuni o similitudini. Ma era indubbio il miracolo di una letteratura che aveva trovato finalmente una certa rilevanza internazionale e un nuovo interesse di editori e lettori. Da allora, negli ultimi dieci anni la letteratura indiana ha guadagnato ulteriori consensi e sono sempre di più i titoli pubblicati e gli autori da scoprire.

Parlare di letteratura indiana in questi termini, però, è un po’ riduttivo. Cinquanta o dieci anni non sono niente rispetto all’età della letteratura indiana, che si perde nella notte dei tempi. I due grandi poemi epici, il Ramayana e il Mahabharata risalgono a qualche secolo prima di Cristo, per non parlare dei testi religiosi in sanscrito, dei poemi tamil o delle poesie in urdu. Per la varietà linguistica dell’India, con 23 lingue ufficiali e centinaia di ufficiose ma largamente parlate, considerare poi solo gli scrittori in lingua inglese è ulteriormente riduttivo, con tutte le tradizioni letterarie proprie delle diverse lingue. Tant’è vero che non bisognerebbe neanche parlare di “letteratura indiana” ma invece di “letterature indiane”.

Ma le prime pagine indiane nelle nostre letture sono state quelle delle traduzioni in inglese, arrivate tramite il colonialismo, delle poesie di Tagore (premio Nobel 1913), da lui stesso tradotte in inglese dal bengali. Nel 1947 è poi arrivata l’indipendenza e l’India si è trovata ad essere una nazione enorme, piena di risorse e povertà, di storie da raccontare e segreti da tacere, di nuove idee e vecchi problemi. Di vecchie idee e nuovi scrittori. E così abbiamo conosciuto i romanzi di Anita Desai e Narayan, in inglese per motivi linguistici (l’inglese era l’unica lingua letteraria studiata a scuola) ma anche per il desiderio di spiegare l’India al di fuori dell’India.

È arrivato poi Salman Rushdie, che ha spiazzato tutti con I figli della mezzanotte (Booker Prize nel 1981), con la sua prosa affabulante e le sue fantastiche storie. Rushdie ha avuto il merito, come dice Arundhati Roy, che “il mondo non chiedesse più all’India di essere una caricatura di se stessa e della sua cultura millenaria, ma di poter semplicemente alzare il viso e dire: Io sono così”.

E a proposito di Arundhati Roy, non possiamo dimeticare il caso letterario del Dio delle Piccole Cose, Booker Prize nel 1997 e best seller internazionale. Poi, nel 2001 il premio Nobel a Naipaul, indiano di origine e non di nascita, ma profondamente legato, nel bene e nel male, all’India. E poi, nel 2006 un altro Booker Prize, questa volta a Kiran Desai, figlia di Anita Desai. E infine, altri scrittori che da un po’ popolano le nostre librerie: Vikram Seth, Amitav Gosh, Anita Nair e tanti altri.

Alcuni vivono ancora in India, altri sono emigrati in Canada, Inghilterra o negli Stati Uniti, ma tutti scrivono dell’India o degli immigrati indiani all’estero. La maggior parte scrive in inglese, lingua in grado di garantire visibilità internazionale, ma anche veicolo di comunicazione fra le molteplici lingue indiane e spesso unica lingua letteraria studiata a scuola.

Oltre a chi festeggia questo miracolo della letteratura indiana, c’è però anche chi critica questo successo che ha portato, sulla scia di una “moda indiana”, anche libri di scarso livello. Questa “moda” inoltre sembra spingere gli autori a descrizioni di un’India stereotipata ed eccessivamente esotica per compiacere il lettore occidentale. C’è chi ha accusato a questo proposito questi scrittori di poca autenticità, di non scrivere per gli indiani, di appartenere a una classe borghese che male rappresenta le grandi masse indiane.

In parte è anche vero, ma bisogna ammettere che, sulla scia di questo successo, si iniziano anche a tradurre nuovi autori che scrivono in hindi o bengali: il fiume dei nuovi titoli porta anche alcuni piccoli capolavori che sarebbe stato difficile conoscere diversamente, scritti in India, da indiani, per indiani, in una lingua indiana.

Ma alla fin fine, c’è qualcosa che accumuna tutti questi scrittori?
Difficile dirlo, tanti sono i temi, i personaggi, i toni e le storie. Ma azzardando un po’ si può tentare di rispondere con una frase del Mahabharata che dice: “Tutto quello che si trova nel Mahabharata esiste anche altrove. Quello che non c’è non si trova da nessun’altra parte.”
Questo potrebbe essere vero non solo per un libro scritto migliaia anni fa, ma anche per la letteratura indiana contemporanea.

Racchiudere il mondo in un libro, nei libri? Sembra una follia, in particolare per una terra con migliaia di anni di storia, un miliardo di abitanti, trecento milioni di dei e infinite storie da raccontare. Una corrispondenza perfetta fra i libri e il mondo? Ma se questa affermazione può essere opinabile, non è certo per il fatto che esistono, per dirla con Shakespeare, molte più cose in cielo e in terra di quante se ne sognino nei libri, ma piuttosto il contrario. In molti casi infatti ci sono molte più cose in un singolo libro di quanto si riesca a immaginare anche con la piu' fervida fantasia.
Racchiudere il mondo in un libro, nei libri? Forse è questo il vero miracolo della letteratura indiana.

Commenti

  1. Veramente molto interessante il tuo pezzo!
    Ho apprezzato molto anche il tuo blog. Io sono arrivata alla letteratura indiana per una smania di conoscere il sub continente e non ho una formazione organica in merito.
    Il tuo blog mi ha aiutato ad orientarmi.
    Grazie

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  2. Grazie a te... veramente neanche io ho una formazione organica in merito.
    Sono solo un'avida, fanatica e accanita lettrice che legge a destra e manca piu' che puo'...
    E queste sono solo le mie idee, che mi fa molto piacere poter condividere con altri!

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  3. Cara Silvia, ti chiedo scusa per aver pubblicato il tuo articolo sul mio blog senza citarne la fonte, ma vedendo che cliccandoci sopra si apriva direttamente la pagina del tuo blog, ho creduto che fosse sufficiente e che anzi fosse un link interessante, che ingenua! Mi dispiace molto ma che tu lo creda o no e' stato un errore dovuto alla mia inesperienza in materia di blog. Ho provveduto ad elimanare il tuo post dalla mia pagina, ti chiedo nuovamente scusa e ti assicuro che non accadra' piu'.
    Un cordiale saluto.
    Susanna

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  4. Ciao Susanna,
    non c'è problema, puoi usarlo tranquillamente, così come puoi usare altri post!
    Mi sembra solo importante sempre dire da dove vengono prese le cose, per correttezza e anche per far sapere a chi legge che provenienza ha l'articolo (io quando leggo me lo chiedo sempre)!
    Allora benvenuta nel magico mondo dei blog!
    ciao e grazie
    silvia

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  5. Ciao Silvia, hai perfettamente ragione! Ho molto da imparare, grazie a te.
    Susanna

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