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Visualizzazione dei post da ottobre, 2008

Mare di parole

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Non è un mistero che a me piacciono i libri linguisticamente densi, con tante parole, anche in lingue diverse, anche difficili, anche ricercate o inusuali, anche con il rischio del sovrabbondante, del barocco. Linearità e semplicità non fanno per me, almeno nelle letture di piacere. In questo senso Mare di papaveri mi ha soddisfatto parecchio. La prima cosa che avevo letto non appena l'ho comprato è la nota dei traduttori (che è alla fine del libro... ciò la dice lunga su come io legga i libri). In questa nota i traduttori (Anna Nadotti e Norman Gobetti) dicono che tradurre questo romanzo di Ghosh è stata una vera e propria sfida, perché ogni personaggio parla un inglese diverso, contaminato ora dal bengali, l'hindi e l'urdu, ora dal bhojpuri, ora dal cinese, ora dal francese, ora dal lascari, ora dal zubben , "la sfavillante lingua d'Oriente, solo una spruzzatina di parole negre mescolate con un po' di oscenità". Quando ho letto questo, volev

Mare di papaveri

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di Amitav Ghosh Tutti nella stessa barca 1838. La guerra dell'oppio alle porte, il colonialismo inglese in India, il commercio con la Cina, la trasformazione delle campagne indiane in distese di papaveri per la produzione d'oppio. Questa la Storia. Il figlio di una schiava di colore che viene dagli Stati Uniti. Un carrettiere intoccabile, grosso e buono. Una giovane francese orfana che vive in India. Un raja, ingenuo e delicato, decaduto e incarcerato. Un cinese, criminale e oppiomane. Una donna presto vedova che sfugge al suo destino. Un gruppo di lascari, i marinai di tutte le razze possibili dell'Oceano Indiano, con una lingua tutta loro. Queste le storie. Sembra all'inizio che tutte queste storie scorrano parallele, senza toccarsi mai, se non all'infinito. E invece si incontrano quando l'infinito si materializza in un unico punto, quando si ritrovano tutti nella stessa barca. In senso figurato, in quanto il destino di ognuno dipende da quello di

Quarto o quinto?

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Ovvero il quasi-indiano innominato Ho cercato un po' di notizie in rete e sui giornali su Aravind Adiga e La tigre bianca , vincitore del Booker Prize 2008, nell'attesa di leggerlo. Più o meno i commenti sono simili: romanzo caustico dal tono sarcastico, che mette a nudo lo sviluppo economico indiano, basato su ingiustizie ed empietà e intrinsecamente marcio: c'è chi sta nel fango (i più) e chi nel lusso (i meno) e chi sta nel lusso ci sta grazie a corruzione dilagante, omicidi e via dicendo. La cosa divertente da notare però è che, nell'annunciare la vittoria di Adiga, alcuni parlano di quarto vincitore indiano, altri di quinto, come dicevo poco fa . Alcuni precisano: quinto se si parla di "of Indian origin", quarto se di parla di "Indian-born". In questo conto il protagonista implicito è Naipaul , l'unità in più o in meno, non "Indian-born" ma sicuramente "of Indian origin". E' indiano Naipaul? In India

Il Booker Prize e l'India

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Aravind Adiga è il quinto indiano a vincere il Booker Prize. Secondo The Hindu il quarto, perché non considera indiano Naipaul (poi premio Nobel nel 2001), che lo ha vinto nel 1971 con In uno stato libero. Rushdie lo ha vinto nel 1981 con I figli della mezzanotte , Arundhati Roy nel 1997 con Il Dio delle Piccole Cose . Nel 2006 Kiran Desai con Eredi della sconfitta . Con Arundhati Roy , Adiga condivide il fatto di averlo vinto con il suo primo libro, da esordiente assoluto. Altri indiani però hanno popolato negli anni la "shortlist" dei candidati al premio, senza vincerlo. Rohiton Mistry per ben due volte negli anni Novanta, con Un lungo viaggio e Un perfetto equilibrio (entrambi stupendi romanzi, che lo avrebbero meritato). Anita Desai per tre volte, però il premio è poi entrato in famiglia tramite la figlia Kiran.  Nel 2007 Indra Sinha con Animal's people . Di Mare di papaveri di Ghosh ho già detto . Anche Rushdie è finito per tre volte fra i candi

Aravind Adiga vince il Booker Prize

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Ieri sera, ultima azione della giornata, ho finito Mare di papaveri di Amitav Ghosh . Girata l'ultima pagina, chiuso il libro, spenta la luce, a nanna. Questa sera, poco fa, penultima azione della giornata (l'ultima è scriverne qui), vado a sbirciare nel sito del Booker Prize per vedere se per caso l'ha vinto proprio Ghosh, candidato al premio con Mare di papaveri. Quel premio che ha consacrato Rushdie e Arundhati Roy sulla scena internazionale. Ovviamente tifavo spudoratamente per Ghosh, non solo perché ho appena finito proprio il suo libro, ma per tutti i suoi libri precedenti, perché lo ammiro come scrittore. E invece il vincitore è lui, Aravind Adiga , giovane scrittore esordiente indiano originario di Madras, con La tigre bianca , un romanzo affascinante, o almeno così sembrerebbe (visto che io non l'ho ancora letto). Sono felice lo stesso, felice che sia nuovamente un indiano a vincere il premio più ambito della letteratura inglese. Sicuramente leggerò presto

The trial of the Mahatma

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di Matampu Kunjukuttan Ovvero l'esperimento venuto male Dicevamo degli esperimenti di Gandhi. Ma anche sua moglie e i suoi figli sono stati oggetti dei suoi esperimenti? E' stato giusto proibire al figlio gli studi in Inghilterra in nome della causa indiana, negandogli proprio ciò che il padre invece aveva avuto? E poi com'è che Gandhi, per diventare il Padre della patria, il padre di milioni di indiani, ha dovuto ripudiare proprio suo figlio? E' con questi interrogativi che The trail of the Mahatma , scritto in lingua malayalam e tradotto in inglese da Yeti Books, una piccola casa editrice indipendente del Kerala, affronta uno degli aspetti più problematici della vita di Gandhi, il rapporto conflittuale con il figlio maggiore Harilal . Su di lui, fra l'altro, è uscito un film proprio quando ero in India, Gandhi, mio padre (ma che per una serie di motivi non ho poi mai visto). Matampu Kunjukuttan, scrittore keralese che scrive solo in malayalam, fa raccontar

Viva i cinesi!

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Lo so. Avevo promesso di parlare della Cina e poi non l'ho più fatto. Ormai è passato più di un mese dal ritorno e io mi sono persa fra Gandhi e Bombay, fra passato e futuro, nei meandri di una sensazione inespressa fra il sogno e il rimpianto. Ho fatto tutto da sola. D'altra parte, mica facile parlare della Cina, millenni di cultura e un miliardo di persone: dovrei aprire un altro blog per raccontare dei posti visti, degli incontri fatti. Ora però mi sembra giunto il momento di parlarne, anche se solo per un breve e limitato contributo. Non voglio raccontare dei monumenti storici, dei musei, dei posti turistici che ho visitato, di cui si troveranno numerosi e migliori racconti in rete. Parlo solo di loro: i cinesi. Parlare di loro si sposa anche benissimo con il ricordo di Gandhi, con il ricordo che tutti gli uomini, in tutto il mondo, sono uguali. Perché invece oggi ce l'hanno tutti con i cinesi, con un sottile e diffuso razzismo anti-cinese: cinesi che sfruttano i

Mira e il Mahatma

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di Sudhir Kakar Ovvero un Gandhi diverso, ma sempre vero Sempre a proposito di Gandhi, mi è venuto in mente questo libro, che ho letto quasi un anno fa, su consiglio di un amico indiano che mi prometteva che mi sarei identificata nella protagonista. Non è stato così. Però il libro mi è piaciuto. Mira e il Mahatma . Lei, Mira, è Madleine Slade, una giovane donna inglese che nel 1925 lascia tutto per andare a vivere in India.  Lui, il Mahatma, è Gandhiji o meglio ancora Bapu. Certo, è proprio Gandhi, anche se con questo nome non compare mai nel libro. Meglio Bapu, padre, oppure Gandhiji, dove il ji finale è aggiunto in segno di rispetto. Il romanzo di Sudhir Kakar è la storia dei momenti che Mira e il Mahatma hanno condiviso e dell'intensa relazione umana che hanno avuto durante gli anni delle lotte per l'indipendenza dell'India. Mira, figlia di un capitano inglese, affascinata dalla figura di Gandhi, a un certo punto della sua vita decide di lasciare la sua vita bo