La stanza della musica
"Tornai a Kennedy Bridge la settimana successiva. Durante la nostra prima lezione, Dhondutai mi invitò a chiudere gli occhi e ad ascoltare il fedele compagno dei cantanti, il tanpura.
Io ero incuriosita dallo strumento, che somiglia a un sitar, ma produce solo quattro note, ripetute senza sosta. Dhondutai passò le dita sulle corde e un suono grave, ritmico e ipnotico, prese a colmare la stanza, creando un costante mormorio di serenità. Ben presto, tutti i rumori dell’ambiente - il ronzio del ventilatore, il ticchettare smorzato dell’orologio da tavolo, le grida occasionali dei bambini e degli ambulanti per la strada, il russare sommesso di Ayi, il sibilo della pentola a pressione in cucina - trovarono il loro posto in rapporto a quel suono di sottofondo. Da allora in poi, il nostro linguaggio fu quello della musica."
È attraverso le lezioni di Dhondutai, che Namita Devidayal, autrice di questo libro di grande successo in India e ora in uscita anche da noi, entra nella “stanza della musica”, aprendo una porta su un mondo antico e affascinante.
È la madre dell'autrice a portarla, riluttante e a soli dieci anni, a lezione di canto da Dhondutai, erede dimenticata di una delle grandi scuole musicali dell'India.
Nel modesto appartamento di Dhondutai, inizialmente, più che note musicali e tanpura, sono il sorriso sdentato dell'anziana madre della maestra e un tempietto in miniatura popolato dalle statuette degli dèi ad affascinare la giovane Namita.
Ma avrà (e avremo) tempo per esplorare, capire e conoscere, perché La stanza della musica è soprattutto un viaggio attraverso raga, taan, note e ritmi musicali, attraverso la storia della musica vocale indiana e dei suoi maestri, senza mai scendere nei dettagli tecnici della composizione musicale, ma sempre respirandone le note.
Un viaggio che si compie attraverso i ricordi personali e gli aneddoti, che si perdono nel tempo e nella leggenda, per scoprire la storia delle varie scuole (i gharana) della musica indostana, prodotto di un favoloso sincretismo fra mondo musicale indù e musulmano.
È anche un viaggio attraverso Bombay e la sua gente, sopra i suoi treni affollati, per raggiungere la casa della maestra, che negli anni si sposta in luoghi diversi nella città, da Kennedy Bridge, quartiere malfamato pieno di bordelli e locali equivoci, fino a Shivaji Park, zona residenziale con un bellissimo parco per i concerti notturni di musica classica.
È soprattutto la storia di un rapporto umano, in un mondo che sta scomparendo, in cui è impossibile imparare l’arte tramite conservatori o piani di studi, ma solo tramite il rapporto allievo-guru, improntato alla devozione nei confronti del proprio maestro e anche alla sopportazione delle sue idiosincrasie e paranoie, così frequenti in un mondo di accesa rivalità fra maestri di scuole diverse.
È un viaggio nelle sette note indiane, che nominalmente corrispondono a quelle occidentali, ma che però non costituiscono rapporti musicali precisi e geometrici come per la nostra musica, ma “sono interconnesse attraverso un sottile, elusivo e impalpabile continuum di suoni” da tutto un mondo di note intermedie che “rappresenta la realtà continua, invisibile e in perenne mutamento che è sfondo di ogni nostra azione e percezione, del nostro karma e del nostro destino.”
È un viaggio di parole, in cui non mancano parti descrittive e didascaliche, che generalmente non amo nei libri che leggo, ma che qui non tolgono niente alla narrazione, anzi aggiungono, a chi, come me, ben poco sapeva di questo mondo ineffabile e della sua musica divina.
Che bello, hai scritto di nuovo! Un altro titolo da aggiungere alla mia ormai infinita lista di libri da comprare. Seguendo il link da te indicato ho scoperto il blog Awaragi dove ho ascoltato subito la registrazione di Kesarbai Kerker. Non mi era mai capitato prima di ascoltare questo tipo di musica e l’ho trovata molto affascinante. Grazie a te sto scoprendo qualcosa di nuovo e sono talmente curiosa che trascorrerei le ore a passare da un blog all’altro…peccato che ogni tanto debba anche lavorare!!!
RispondiEliminaLa settimana scorsa ho finito di rileggere “The God of the Small Things” e di nuovo mi sono emozionata come la prima volta. Mi ha fatto sorridere, ridere, e poche pagine dopo a stento trattenevo le lacrime per poi riprendermi e riflettere su quante emozioni possa far provare una storia ben scritta. Ad un certo punto del romanzo si legge: "It didn't matter that the story had begun, because Kathakali discovered long ago that the secret of the Great Stories is that they have no secrets. The Great Stories are the ones you have heard and want to hear again. The ones you can enter anywhere and inhabit comfortably. They don't deceive you with thrills and trick endings." Ed e’ proprio vero che se una storia e’ veramente bella e’ sempre una gioia rileggerla cogliendone sfumature e particolari che ci erano sfuggiti o che non ci erano sembrati importanti perche’ non li avevamo capiti…come la descrizione di un particolare sentimento che, se mai provato prima, non riusciamo a ricreare dentro di noi, come invece accade quando ci si riconosce in quanto viene narrato.
Da ieri ho cominciato la rilettura di “Chiara luce del giorno” di Anita Desai. Quando ho letto il tuo post su questo libro mi sono subito resa conto di essermelo dimenticato…l’unica certezza che avevo era di averlo letto e infatti l’ho ritrovato subito li’, fra gli scaffali, che mi aspettava! Ti faro’ sapere piu’ avanti il mio parere su questo romanzo.
Ciao!!!
Sì, ho scritto di nuovo!
RispondiEliminaHai ragione, sono stata un po' assente, perdonami... Anche io passerei il tempo a scrivere (e a leggere), ma anche io purtroppo ogni tanto devo anche lavorare!
Mi fa piacere che tu segua i link:
visto che bello il blog di Sunil? Lo leggo sempre, è bellissimo sentir parlare un indiano che vive in Italia, e per lo più che scrive così bene in italiano.
Mi fa anche piacere che tu abbia riletto il Dio, io invece mi ero ripromessa di farlo e non l'ho ancora fatto...
E' proprio vero, le Grandi Storie si possono sentire tantissime volte senza mai perderne il fascino, magari ogni volta con sfumature diverse. Crescono con noi, cambiano a seconda di come noi cambiamo.
Questa cosa delle Storie poi mi piace particolarmente. Potrei stare a sentire per ore storie, storie che si intersecano, storie che ripetono, storie che si contraddicono.
Se hai letto "Se una notte d'inverno..." di Calvino, io sono esattamente il personaggio della Lettrice. E proprio nelle narrazioni indiane trovo cibo per questo mio appetito di storie.
Fammi sapere poi per Chiara luce del giorno. Non è un libro di quelli ammalianti che colpiscono subito al cuore, come può essere in un certo senso il Dio delle Piccole Cose, ma è, secondo me, più intimo, più discreto: arriva al cuore ma indirettamente, insinuandosi quasi inascoltato.
Devo dire la verità: non conosco un sistema musicale che, come la musica classica indiana, teorizzi e applichi "rapporti musicali precisi e geometrici", e anche gerarchici, oggettivi e analitici... fin nelle più piccole sfumature melodiche e microtonali!
RispondiEliminaTi riporto quello che scrive Namita Devidayal (forse non è del tutto diverso da quel che dici tu, sicuramente però per lei le sfumature non sono per niente oggettive):
RispondiElimina"L’antica concezione occidentale vede nella musica un insieme di sequenze sonore i cui intervalli melodici regolari riflettono i semplici rapporti matematici sui quali è costruito il mondo e grazie ai quali il mondo stesso risulta comprensibile ai nostri organi percettivi.
Perciò la teoria dell’Occidente si fonda su princìpi razionali e accessibili ai nostri sensi, princìpi che la mente umana è in grado di cogliere, riconoscere e dimostrare.
La musica indiana affonda le sue radici in un presupposto fondamentalmente diverso: l’idea che esista una realtà continua, invisibile e in perenne mutamento a costituire lo sfondo di qualsiasi azione e percezione dell’uomo.
È tale realtà a plasmare il nostro karma o destino, e ad aiutarci a capire perché ci succedono cose in apparenza inesplicabili.
Nella musica indiana, le note non corrispondono a entità categoriche, separate e autonome, ma sono interconnesse attraverso un sottile, elusivo e impalpabile continuum di suoni che l’orecchio umano riesce a malapena a identificare. In senso metafisico, questi suoni fanno parte della realtà che si trova al di là della percezione. Tali note intermedie, chiamate sruti, sono l’essenza della musica indiana.
Su un piano molto letterale, le sruti sono le mezze note e i quarti di nota che riempiono l’intervallo tra due note diverse. Ma una simile definizione sarebbe grossolanamente incompleta. Le sruti possiedono un significato molto più ampio, perché possono cambiare completamente la realtà delle note stesse. Per esempio, la maniera di giungere a una nota è importante quanto la nota stessa: ci si può arrivare dall’alto o dal basso, dopo aver accarezzato la nota nascosta che le aleggia accanto, evocando così sensazioni del tutto differenti da un approccio diretto.
Questo spiega perché non si può imparare la musica indiana sui libri. Bisogna apprenderla da un guru in grado di chiarire certe sfumature, di tirar fuori dall’allievo le note giuste, aiutandolo a raggiungerle. Come potrebbe un testo, per quanto ben articolato, far capire che bisogna avvicinarsi agli swara con gradualità e amore, corteggiandoli un poco?"
Cara Silvia, finalmente La stanza della musica! Da quando me ne avevi parlato lo aspettavo con trepidazione. Appena ce l'ho in mano ti scrivo una email...
RispondiEliminaNon vedo l'ora di leggerlo, la musica indiana come anche la danza indiana sono per me qualcosa di molto naturale, come se l'avessi vista e sentita da quando ero bambina.
bello il tuo post, come al solito.
un caro abbraccio, cris
Per Karachan: se dopo che hai riletto Chiara luce del giorno hai tempo di andare a vedere il post su questo libro nel mio blog: www.globalstories.it e mi dicessi le tue nuove impressioni su questo bellissimo romanzo, ne sarei propio contenta. perdonami l'intrusione! ciao, cris
Sarebbe interessante sapere cosa avrebbero pensato delle romantiche teorie karmiche della Namita i grandi creatori della musica indiana tipo Mian Tansen, Abdul Karim Khan, Baba Alauddin Khan. Se c'è una cosa che trovo insopportabile sono i paragoni del tipo "la teoria dell’Occidente si fonda su princìpi razionali e accessibili... mentre la musica indiana..." Poi basta prendere qualche testo tradizionale sulla musica (o sulla poesia), tipo il Sangitaratnakara (XIII sec) e ci si accorge d'un lampo quanto sia scientifico e razionale anche l'approccio indiano, anche verso le finezze microtonali più sottili, che ovviamente, visto che il guru le insegna - e s'incavola pure parecchio se non le fai giuste, secondo i parametri suoi e del gharana - sono accessibili ai sensi e non "al di là della percezione". Che poi ci sia tutto un modo di raggiungere le note, di portarle, di carezzarle, di arricchirle con i microtoni circostanti (secondo regole ferree, che caratterizzano ogni diverso raga) è un dato di fatto, e in India ha raggiunto una raffinatezza e una scientificità quasi ineguagliabile. Per quanto riguarda la trasmissione orale del maestro, mi permetto di dire che vale lo stesso per il nostro vituperato Occidente, visto che le nuances d'intonazione di un violino, di un violoncello, e pure di un cantante lirico, nonché tutte le sottigliezze agogiche riguardanti il modo di portare il tempo, di abbandonarlo, di renderlo esitante o incalzante ecc, le sfumature di dinamica ecc, vengono trasmesse solo da un maestro vivente, ed è così ancora oggi, non s'imparano certo dai libri. Paradossalmente in Occidente tutto questo ha un carattere molto più soggettivo, meno scientifico e codificato che in India, dove un maestro sa spiegarti e farti sentire nel minimo dettaglio il perché, il come, il quanto e il quando una certa sfumatura o abbellimento va' messa lì secondo antica tradizione. Ma insomma, la fiera dello stereotipo letterario la va un po' così, India mistica, karmica e fluida, Occidente rigido e razionalista...
RispondiEliminaCris, grazie, poi fammi sapere!
RispondiEliminaMi unisco anche io alla discussione su Chiara luce del giorno, quando ci sarà, fatemi sapere.
Giri,
non uniformerei questo libro a uno stereotipo letterario, come possono magari essere altri libri della fiera editoriale (non so, tipo Anita Nair o Divakaruni).
Quello che descrive Namita deriva dalla sua esperienza personale di allieva di "Dhondu" e dalla storia della sua maestra (quindi forse non è generalizzabile, ma per lo meno non parla per sentito dire): dalla sua esperienza c'è un approccio diverso quanto meno nell'insegnamento.
Nella sua esperienza, per esempio il fatto che sia tutto basato sulla trasmissione orale, senza partiture.
Non dice che non ci sono regole, anzi sottolinea la grammatica ben precisa dei raga, e anche la sua maestra si incavola se lei sbaglia una nota di un raga.
Ma quando lei le chiede perché, non le spiega oggettivamente perché, le dice che la musica è sacra, ed è giusta così, e la fa riprovare.
Lei non ha esami al conservatorio, debiti (debts!) e crediti formativi, non fa mai lezioni di "teoria", ma canta e ascolta (ho poca esperienza nel campo musicale, da piccola sono andata a lezioni di piano - lezioni del tutto fallimentari - anche in scuole diverse: ho fatto più esercizi sulle note da scrivere sul pentagramma che che suonato il piano).
Non so se sia così per tutti gli allievi indiani, e cosà per tutti gli allievi occidentali.
Tutto il resto del libro non è così karmico, anche se è chiaro che lei cerca di affascinare o ammaliare il lettore (anche lo stesso lettore indiano) nei confronti del mondo musicale.
Non penso che ti potrà entusiasmare più di tanto, perché già conosci questo mondo, e il suo scopo è proprio quello di parlarne a chi non ne sa niente (come me).
Forse semplifica e generalizza, è vero...
Non uniformo il libro a uno stereotipo letterario, anche perché non l'ho letto, ma uniformo la frase citata a uno stereotipo culturale. Le regole e la grammatica ci sono in tutte le musiche, proprio come l'insegnamento orale, che cerca di trasmettere quello che i libri non possono. Questo vale in particolare per la musica classica occidentale (sfido a trovare un grande concertista che non abbia avuto una relazione profonda con un maestro, e non abbia imparato i misteri del suono dal rapporto personale e intimo con un maestro), o anche per il jazz, il flamenco, il blues, e così via.
RispondiEliminaVolevo solo far notare che affermazioni come "un mondo di note intermedie che rappresenta la realtà continua, invisibile e in perenne mutamento che è sfondo di ogni nostra azione e percezione, del nostro karma e del nostro destino" è applicabile, nella sua vaghezza,alla musica indiana come a quella occidentale, orientale, iperborea e australe. Insisto che le relazioni fra suoni, microtoni, abbellimenti, e matematiche ritmiche costituiscono nella tradizione indiana "rapporti musicali precisi e geometrici" molto più che nella nostra tradizione, in cui queste faccende, con buona pace di Pitagora, sono ormai lasciate più alla soggettività e all'intuizione personale (è da da noi che il romanticismo ha creato la figura del cosiddetto "artista" solitario, prometeico, innovatore e spesso maledetto; in oriente c'è -- o c'era -- più il ruolo dell'eccelso artigiano). In India le questioni di cui sopra costituiscono una scienza a pieno titolo, analizzata in una quantità di trattati più o meno antichi, se non nella pratica dei singoli maestri, che in genere badano più al sodo (giustamente: come il luminoso maestro del "Gioco delle perle di vetro" di Hesse). Nel dhrupad, in particolare, quella dei rapporti fra suoni, e della "entità " dei singoli suoni è una scienza esatta, alla base del genere stesso.
Ebbene sì: rifiuto lo stereotipo che la musica indiana sia tutta mistica e impalpabile, e la nostra rigorosa, scientifica e meccanicamente spartitesca (per stare in tema letterario, ci sarebbe anche il sublime Doctor Faustus di Mann...); auspicherei che musicisti, giornalisti e scrittori indostani ricordassero, ogni tanto, che la musica indiana -- per come l'ascoltiamo oggi -- viene più dai bordelli e dalle corti di sultani e raja che dai colonnati dei templi hindu, ed è precisamente per questo che fino agli inizi del novecento, e oltre, quella del/della musicista era ritenuta una carriera abominevole.
Sì, adesso anche in India abbondano scuole e corsi universitari, e il rapporto discepolo-maestro è mutato. Si cerca d'imparare in fretta, e di diventare virtuosi fiammeggianti nel minor tempo possibile, perché da Ravi Shankar in poi si sa che le possibilità di carriera in Occidente possono essere molto lucrative.
Eh, peccato che non si trovi in nessun modo il dvd di The Guru, il bel film di Merchant-Ivory sul rapporto discepolo/maestro fra una superstar del pop anni sessanta (vedi Beatles) e un grande e tradizionale maestro di sitar di Benares...
Certo, in realtà in (quasi) ogni qualsiasi disciplina è importante la trasmissione orale.
RispondiEliminaAnche in discipline non artistiche.
Sempre da come viene descritta qui, la relazione allievo-maestro nella musica indiana sembra fosse qualcosa di molto più esclusivo che da noi (anche nella più romantica delle accezioni occidentali), quasi più forte di un legame di sangue, una sottomissione totale dell'allievo nei confronti del suo guru.
Anzi, direi proprio che è questo il filo conduttore del libro: il passaggio della tradizione da allievo a maestro.
Nel libro si parla proprio della musica nata da bordelli e dalle corti e della professione scandalosa (il personaggio di Kesarbai). Ma mi fermo da fare altri copia e incolla di paginate di libro...
Insomma, ci sono delle sfacettature, che completano e sfumano nel corso del libro la sua iniziale rigida suddivisione (o stereotipo) India/Occidente.
Mi piacerebbe sapere, se mai un giorno lo leggerai, le tue impressioni sul libro nel suo insieme.
The Guru non si trova proprio?
Su questo non c'è dubbio, e in effetti era (e avolte è ancora) un rituale d'iniziazione in piena regola, con tanto di cordoncino e compagnia bella. Per contro oggidì non è che il dipartimento di musica dell'università di Delhi, per fare un esempio fra i tanti, sia molto diverso da un conservatorio occidentale...
RispondiEliminaMa siccome tutto il mondo è paese, conosco un chitarrista classico nostrano che andava a lezione dal suo maestro (sommo!) in ospizio, lo radeva, gli portava da mangiare e gli faceva ogni genere di servizio... in cambio di lezioni impareggiabili di musica, vita, filosofia, nella stanzuccia del ricovero!
Sono certo che qualcuno, pieno di riconoscenza, mi regalerà il libro della Nandita (ehm...), e proverei a leggerlo, ma davvero la lista di attesa dei volumi sull'argomento è imponente e scoraggiante.
Temo che attualmente per The Guru non ci siano molte speranze, dev'essere vittima di qualche strana questione di diritti... mi pare l'unico film della rinomata coppia che non sia stato commercializzato in dvd, mannaggia. Ma spero proprio di essere smentito!
Sono sicura che qualcuno, molto riconoscente nei tuoi confronti, regalerà il libro al suo Sommo Maestro.
RispondiEliminaTutta questa discussione su quale musica sia più scientifica/rigida mi ha portato a chiedere maggiori dettagli direttamente a Namita (le vie di internet sono infinite), per ora è stata evasiva (karmica).
Beh, è esattamente quello che detesto di più, questo tipo di confronti in cui cadono tanto i musicisti occidentali, quanto quelli orientali ("La nostra musica ha un'armonia sviluppatissima, la vostra è tutta uguale" "Ah, ma è rigida e meccanica, e noi usiamo più scale e abbellimenti"). Il senso del mio primo intervento voleva essere proprio quello. In sintesi: né Oriente né Occidente hanno l'esclusiva della eccellenza estetica o della mistica trascendente musicale, che puoi trovare sia in raga Darbari cantato da Ustad Amir Khan che nelle sonate per violoncello di Bach suonate da Anner Bylsma. La scienza delle "note intermedie", delle shruti, dei microtoni, degli abbellimenti, ecc è oggettivament più analitica e sviluppata in India che nell'Occidente post-romantico (nel barocco non scherzavano su queste cose). Dire che il flusso di note intermedie “rappresenta la realtà continua, invisibile e in perenne mutamento che è sfondo di ogni nostra azione e percezione, del nostro karma e del nostro destino", abbiate pazienza, è una bellissima frase, ma applicabile a qualsiasi fuga ben temperata di Bach, o quartetto di Beethoven, sinfonia di Prokofiev e probabilmente anche a un assolo di Jimi Hendryx! La musica indiana, che amo profondamente in tutte le sue forme, è uno dei doni divini all'umanità, ma cerchiamo di non perdere la visione d'insieme!
RispondiEliminaE tanto per rendersi conto dell'analiticità della faccenda, non senza un certo sadismo trascrivo un'infima briciola di una traduzione del celebre manuale duecentesco, il Sangitaratnakara di Shrngadeva:
RispondiElimina"Verse 41. When the shuddh svaras change their places
among the srutis, they become vikrit svaras. There are 12
vikrits.
Verses 42, 43. Sa has two vikrit positions Chyut and
Achyut. In both it is of two srutis. It becomes Chyut when
ni takes its first sruti and changes to kaishik ni. Becoming
Chyut, it leaves its unused (fourth) sruti to ri ; thereby ri
becomes vikrit because its distance from sa is increased.
Sa becomes Achyut (not fallen or unmoved) when ni is raised two srutis and made kakali ni.
So, when ni becomes a svara of three srutis, by taking one
from sa, sa is lowered one sruti, and becomes Chyut ; when ni
becomes a svara of four srutis, by taking two from sa, sa
becomes Achyut.
Verse 44. Sadharan and Antara are the two vikrit states
of ga; Sadharan of three srutis and Antara of four srutis.
Verse 45.— Ma, like sa, has two vikrit conditions, Chyut and Achyut. When ga takes its first sruti, ma, in order to
stand at a distance of two srutis from this Sadharan ga,
becomes Chyut; again, when ga is raised to the second sruti
of ma, becoming Antara, ma stands in its original place,
but is called Achyut. It has lost two srutis, and so has become
vikrit.
Verse 46. Pa also has two vikrits. First, when it becomes
a shuddh svara of the Madhyam Grama ; secondly, it will
become Chyut or Kaishik, when ma, the preceding note, is
Chyut. It must fall one sruti to keep four srutis from Chyut
ma. When pa becomes Kaishik, its last sruti goes to dha and
makes dha vikrit.
Verse 47.— When ni takes the first sruti of sa, it is
Kaishik ; and when it takes two, it is Kakali. These are
the two vikrits of ni.
Such are the twelve vikrits. The total of shuddh and
vikrit svaras is nineteen..."
Ho capito, ho capito! :)
RispondiEliminaSono assolutamente d'accordo sulla bellezza estetica della musica e sul suo lato mistico, occidentale o orientale.
Mi riferivo infatti proprio alla scienza delle note intermedie di cui parlavi sopra, che mi interessa molto forse proprio perché non disdegno un approccio (anche) scientifico alla musica: dal suo libro non emerge affatto questa maggiore oggettiva analiticità...
Grazie mille per la trascrizione!
Ah, volendo c'è anche di peggio, e di più antico... ma direi che basta. Vado a sentirmi i Sex Pistols!
RispondiEliminaOrpo, siete troppo dotti per me... L'unica cosa che so di rapporti fra le note musicali è che in qualche strana maniera c'entra la regola di Fibonacci. :))) Quindi mi defilo subito da questa troppo complicata discussione, limitandomi ad un saluto. :D
RispondiEliminaAiuto! Acqua in bocca, Luisa, sei matta a tirare in ballo il Fibonacci? Provochi la scienziata! Speriamo che che non si scateni la questione della sezione aurea nei templi hindu e nelle moschee di Shah Jahan!
RispondiEliminaLuisa, "è" troppo dotto, non "siamo".
RispondiEliminaNiente paura, la scienziata è una scienziata fallita che a volte trova un po' forzate le applicazioni delle serie numeriche, soprattutto quando sono fatte con intenti numerologici.
Però invece... i matematici indiani e i templi... quel primo zero tondo tondo a Gwalior... e poi Brahmagupta che smanetta con numeri negativi ed equazioni di secondo grado e Bhaskara che capisce finalmente l'entità dello zero e si calcola tranquillamente le soluzioni delle equazioni diofantee... questo sì che mi piace!
Macché dotto: cotto!
RispondiEliminaEcco, lo sapevo, mo' si scatena...
ho finito ieri di leggere la stanza della musica,-che è uscito qualche mese fa, mi ha coinvolto mi è piaciuto portandomi in un'altra dimensione (poi ho capito anche la natura emotiva del mio coinvolgimento che riguarda
RispondiEliminaragioni mie più personali,quando una lettura risulta gradita al punto tale da far risuonare le corde dei bisogni inappagati e dei desideri ideali, che dono grande ti fa un libro!)
oggi pomeriggio, ed è perfetto per il ferragosto, sto ascoltando musica indiana: Nasrah fath ali khan (pakistano sì), hariprasad Chaurasia, shivikumar sharma (e stavo cercando qualcosa sui raga..mi sono imbattuta nel blog di awaragi e successivamente nel tuo)pensavo infatti sarebbe bello sentire Kesarbai o le interpreti tradizionali di cui parla namita devidayal insomma sentire quello che nel libro è celebrato ed amato.
un gentile saluto!
papavero di campo
Ciao Silvia,
RispondiEliminasono arrivata al tuo blog solo oggi per la prima volta, ti faccio molti complimenti! Io mi dedico da abbastanza tempo di canto dell'india del nord e ho letto la stanza della musica in inglese l'anno scorso con molto piacere. Vedendo i passi citati, trovo la traduzione italiana corretta, ma un po' meno accattivante dello stile originale in verità. Comunque ho seguito con interesse tutti i commenti a questo post e devo dire che inizialmente anche io sono stata colpita come Giri Mandi da quell'affermazione che suona imprecisa se considerata da un certo punto di vista. Ci sono molte cose da dire, spero di nn risultare noiosa, ma volevo contribuire con il mio punto di vista.
Prima che mi scordi tra l'altro volevo anche dire che Dhondutai Kulkarni è vivente, ma ha poche registrazioni all'attivo (credo che quello di Namita sia anche un tributo alla sua carriera), però si può ascoltare qui.
Mi è sembrata particolare la scelta della Neri Pozza di pubblicare questo testo su un argomento così specifico, e ho piacere di sentire che persone che non ne erano addentro lo hanno trovato altrettanto avvincente. Io ero dubbiosa sulle parti storico/esplicative che rompevano il racconto biografico e autobiografico e risultavano poco personali, ovvero elaborate attaverso una bibliografia esterna dall'autore.
Mi sono inoltre meravigliata di leggere che tu, Silvia, lo abbia trovato un testo per neofiti, poiché secondo me era più indirizzato in origine a quella classe media indiana che oggi studia musica classica, ma non sa e probabilmente non vuole sapere da dove viene. Quello che io ho più notato nel libro (e che vedo in India) è invece il contrasto sociale tra l'allievo e il maestro, vedi Alladiya Khan-Kesarbai, Kesarbai-Dhndutai, Dhondutai-Namita. La stessa Namita è estarnea al mondo tradizionale, dice di non sentire spontaneo fare alcuni gesti di rispetto tipici verso la sua maestra se non quando è più grande e frequenta scuole in stile inglese dove la musica classica indiana è molto poco nota e apprezzata.
Per quanto riguarda il dibattito sulla musica occidentale piuttosto che indiana, secondo me qui c'è una miscomprensione (cioè tutti hanno ragione) in quanto il musicista in india è in genere principalmente un performer e non un musicologo. Pochi musicisti conoscono i testi base antichi, che peraltro descrivono e stilizzano una musica diversa da quella che si interpreta oggi.
Nei testi la scientificità è di grande importanza e le famose shruti sono categorizzate, misurate, numerate ecc. Questo però non deve far pensare che la pratica sia altrettanto squadrata. C'è precisione, ma è una precisione nell'affinare l'orecchio e la percezione del suono e non a misurarlo sulla carta. Le note saranno 7 con 5 alterazioni e 22 shruti secondo la teoria, ma il raga è un'entità che va sviluppata dinamicamente e non secondo calcoli astratti, per questo non ha senso avere una trascrizione precisa. Essenzialmente i due punti di vista diversi rappresentano la teoria e la pratica.
Volevo anche unirmi a Silvia nel ritenere non solo secondo quello che descrive Namita nel libro, ma anche secondo la mia personale esperienza con la mia maestra e i suoi racconti sul suo rapporto con la sua maestra, che il rapporto tradizionale tra discepolo e maestro in India e molto più che musicale. Si entra a far parte di una famiglia, si imparano molte cose al di fuori del contesto musicale e spesso ci si mette al servizio del proprio maestro. Non credo lo paragonerei al rapporto che si ha nel contesto di altre società. Alcuni allievi indiani (non certo gli occidentali che arrivano con poco tempo a disposizione e spesso più soldi) trascorrono mesi o anni solo al servizio del maestro prima di ricevere il vero e proprio insegnamento musicale perché devono provare la loro dedizione.
RispondiEliminaSicuramente l'attuale sistema educativo musicale in India è cambiato, e nelle accademie/università il rapporto è più o meno come da noi, ma aggiungerei che lì nessun musicista che vuole diventare professionista o che lo è di famiglia può non passare dal sistema tradizionale e seguire un maestro con cui instaurare un rapporto più personale. Insomma, nessun professionista studia solo nelle istituzioni.
a proposito, Kesarbai Kerkar si può ascoltare
RispondiEliminaqui
Care Papavero e Marged,
RispondiEliminascusatemi se rispondo solo adesso, ma sono tornata or ora da un viaggio in Indonesia. Mi ha fatto molto piacere trovare i vostri commenti!
Papavero di campo (che bel nome, adoro i papaveri!), mi fa piacere che ti sia piaciuto, mi incuriosisce il tuo rapporto emotivo con il libro: che cosa in particolare ha fatto risuonare le tue corde (se si può sapere e se non è troppo personale...)?
Marged, grazie del tuo intervento e dei tuoi link, e dell'interessante precisazione su teoria e pratica!
Non so a chi fosse originariamente indirizzato questo libro nell'idea dell'autrice. Ma da quel che mi scrivono i miei amici indiani e da quello che ho letto, il libro ha avuto un enorme successo di pubblico in India, anche fra chi non si interessa di musica classica e Namita è praticamente diventata una nuova star letteraria.
Io sinceramente non penso sia una grande scrittice (scrive bene ma non benissimo), ma penso che sicuramente aveva qualcosa da dire, grazie alla sua esperienza personale, e l'ha detto in modo molto fruibile e "orecchiabile": un merito non da poco!
Per chi è un minimo interessato all'India penso che leggere questo libro sia una pacchia: si ripercorre la storia della tradizione musicale indiana con una storia personale e con aneddotti interessanti, il tutto in modo molto poco accademico e in stile non saggistico.
Le parti descrittive, secondo me, sono piacevoli in questo senso anche per chi non ne sa molto, perché aggiungono uno spessore al libro e sono molto didattiche, ma immerse in una narrazione personale non risultano pesanti (forse a tratti al contrario risultano un po' semplificate, come la famigerata frase su musica indiana e occidentale).
Alla fine sembra (sembra!) di aver capito tutto della musica indiana. Proprio per questo penso che abbia avuto successo e che sia estremamente fruibile e di facile lettura.
Fa venire voglia di ascoltare qualche raga... (se fossi un editore, farei subito un'edizione con CD!)
Il libro insiste molto sul rapporto allievo-maestro, che come dici tu sembra veramente unico.
Anche a me ha colpito il contrasto sociale fra allievo e maestro, ma anche il contrasto fra diverse classi sociali (argomento del tutto al di fuori delle intenzioni del libro): come Namita stessa dichiara, fa parte du una famiglia ricca, di imprenditori.
E' interessante che lei deve imparare ogni volta che ci sono persone non benestanti in India e se ne sorprende ogni volta che in qualche modo viene a contatto con persone "povere": sui mezzi pubblici (descrive i treni di Bombay la prima volta che ci sale sopra come se fosse sempre vissuta a Beverly Hill e non nel centro di Bombay), nelle case di Kolhapur...
Noto spesso questo stupore incredulo e involontario fra gli indiani più benestanti, quasi non si accorgessero del mondo che gli sta a due passi da casa.
Ma ora vado a sentirmi la Kesarbai!
Sono fissato dell'India da tempo, ma scopro solo ora questo meraviglioso blog. Complimenti Silvia.
RispondiEliminaHo appena finito L'Alchimia del desiderio di Tarun J Tejpal e mi è piaciuto. Ma quello che recentemente mi ha entusiasmato è stato il libro "Discorsi sulla Bhagavad Gita" di Vinoba Bhave, il discepolo di Gandhi. veramente illuminante. A presto
caro Domenico,
RispondiEliminagrazie mille e un caloroso benvenuto da queste parti!
Non ho letto nessuno dei due libri di cui parli e ti ringrazio molto per il suggerimento.
In particolare mi interessa molto il libro di Vinoba, anche perché sono una simpatizzante del LAFTI (Land For Tillers' Freedom), il movimento nel Tamil Nadu per la redistribuzione della terra, nato proprio dal movimento di Vinoba.
Se hai tempo e voglia di raccontarci qualcosa di più, sarà un grande piacere!