Delhi

di Rana Dasgupta

"La nostra città è fatta di aggressività, rabbia, disuguaglianza, corruzione ed egoismo. Di consumismo e di centri commerciali."

Così viene descritta Delhi da una delle persone intervistate in questo libro

Ammetto che Delhi non mi ha mai affascinato. Mi sono innamorata di altre città indiane, ma di Delhi non c'è stato verso. Mi sono sempre chiesta che cosa avesse fatto di male la capitale indiana per lasciar indifferente me, che pure adoro le metropoli asiatiche. 

Questo libro mi ha aiutato a capirlo, anche se non mi ha convinto del tutto.


Rana Dasgupta nel suo reportage su Delhi si prefigge l'obiettivo di raccontare il cambiamento della capitale dopo le liberalizzazioni del 1991 promosse dall'allora Ministro delle Finanze Manmohan Singh (in seguito primo ministro), che hanno fatto passare la città, e tutta l'India, da un'economia chiusa di ispirazione socialista a una neoliberista aperta agli investimenti stranieri. 

Un cambiamento dei modi di vita, dell'economia, dell'urbanistica e degli spazi fisici della città, dell'intera società, ma anche un cambiamento spirituale, profondo e irreversibile, dei suoi abitanti. 

Per raccontare questo cambiamento, Dasgupta utilizza molte interviste in prima persona, che accosta alle sue esperienze urbane in giro per Delhi e alle sue considerazioni storico-sociali.

A questo proposito notiamo che Rana Dasgupta, autore di due romanzi prima di passare alla  "non-fiction" con questo libro, è nato in Inghilterra, ma è di origine indiane e si è trasferito a Delhi nel 2000, a 29 anni.

Delhi, secondo lui, è la città che in India ha subìto il cambiamento maggiore a seguito delle liberalizzazioni.
Un po' per la sua storia passata, una storia di continue distruzioni che nei secoli hanno lasciato la città orfana e senza punti di riferimento, senza il conforto materno della storia e delle tradizioni.
Un po' perché Delhi è la città della politica e quindi della corruzione, dell'arricchimento spietato e dell'ingiustizia alla base delle disuguaglianze. 

In un primo momento, Rana Dasgupta ci parla del nuovo modello americano del mondo del lavoro basato sulla corporation, che arrivando in India si è sostituita allo Stato nella sua capacità di fornire i servizi essenziali.
La  corporation è quella in grado di darti lavoro, acqua potabile ed elettricità, ma anche nuovi valori in grado di mettere in discussione i rapporti in famiglia e nella società, in particolare per le donne. 

Veniamo così a vedere come le privatizzazioni siano state devastanti per certi settori, per esempio nella sanità.
Dasgupta intervista persone che hanno perso madri o mariti proprio perché si sono affidati a ospedali che miravano solo a prescrivere esami sempre più costosi e invasivi al solo scopo di spillare sempre più denaro. 

Ma il cuore del libro sono le interviste ai rappresentanti della classe media imprenditrice che ha beneficiato del cambiamento di rotta e del conseguente flusso di denaro senza fine che è arrivato fra le loro mani, detentori dell'arricchimento e della decadenza morale della città.

In molti sono punjabi arrivati a Delhi dopo la Partizione: "un'invasione", secondo alcuni abitanti di Delhi, che ha distrutto la precedente cultura piena di raffinatezza con la sua chiassosità e volgarità. 
Questi imprenditori incarnano un'etica del lavoro decisamente feudale e basata sulla famiglia, ma soprattutto virile, guerriera e maschilista, che Dasgupta interpreta come reazione alle evirazioni e alle violenze sessuali che le "loro" donne hanno subito durante la Partizione. 

Delhi appare una città decisamente maschile e non a caso è anche definita "la capitale dello stupro".

Ma forse quello che più rende Delhi una città disumana è il fatto che "le moltitudini che la compongono non trasmettono nessun ethos metropolitano. Delhi non ha nulla di urbano".

Delhi è una città fatta di traffico, cavalcavia e SUV fermi in coda, dove l'iniezione di denaro non ha fatto sviluppare un capitalismo "sano", ma ha consolidato una struttura sociale di tipo feudale, in cui manca completamente il senso della comunità.

Dasgupta la associa più a Mosca, dove il capitalismo post-socialista ha favorito una classe di oligarchi, che non alle città americane, a cui teoricamente il nuovo modello economico si ispira.
I ricchi di Delhi si sono trasferiti in farmhouse fuori città, nei loro lussuosissimi feudi privati, senza un vero legame territoriale con la città.
La città regala loro ricchezza, ma loro non la reinvestono nella città: i figli studiano negli Stati Uniti, i soldi sono depositati all'estero e a curarsi vanno a Losanna.

Mi avevano detto che questo libro rappresentava per Delhi quello che Maximum City di Suketu Mehta è stato per Bombay. Ma non sono del tutto d'accordo.
Di certo mi ha fatto capire perché ho tanto amato Bombay e non Delhi: fondamentalmente a Delhi manca un sogno, che invece è l'anima di Bombay. 

I due libri hanno in effetti molti aspetti in comune: due scrittori di origine indiane che vanno in India per raccontare il cambiamento delle metropoli, tramite incontri, interviste, testimonianze di storie vere. 
(Leggevo in questo articolo che in pratica è un nuovo genere letterario indiano, quello della non-fiction urbana - sempre con la parola "ritratto" nel titolo.)
Ma oltre a non avere la stessa vivacità narrativa di Suketu Mehta, qui di Delhi veniamo a conoscenza solo di una delle anime della città, quella della classe più ricca, mentre a Bombay tutto sembrava interlacciato, dal politico più ricco fino all'immigrato del Bihar che dorme sul marciapiedi.

In Delhi c'è un capitolo dedicato ai "poveri", arrivati da fuori per garantire la manodopera a basso costo di cui Delhi ha avidamente bisogno e continuamente spostati da una baraccopoli a una discarica per far spazio a nuovi agglomerati urbani.

Ma in questo libro i poveri rimangono al margine, esattamente come succede nella vita delle classi più agiate, che si accorgono che esistono solo per lamentarsi dei propri domestici.

In questo senso, nonostante il titolo originale sia Capital: A Portrait of Twenty-First Century Delhi, non mi è sembrato un ritratto completo della città.
È vero che per l'autore la classe imprenditoriale è il modello dello sviluppo di Delhi, e dell'intera India urbana, in grado di trascinare l'intera società, ma, come descrive nell'introduzione, è anche una piccola minoranza dei 17 milioni di abitanti della capitale.

Alcune delle analisi storiche, sociopolitiche o antropologiche di Rasgupta non mi hanno convinto e penso che le interviste e la voce degli abitanti di Delhi siano l'aspetto più interessante di questo libro un po' discontinuo, che sembrerebbe costruito affiancando pezzi diversi, non sempre ben amalgamati insieme.

Ma mi piacerebbe molto sentire il parere di chi Delhi la conosce meglio di me. 

La conclusione è terrificante. Dasgupta afferma che è Delhi il modello globale di città del 21esimo secolo: non New York o Londra, ma neanche Bombay.
Una metropoli in cui di fronte alla scarsità idrica ognuno si fa la sua pompa privata per l'acqua per arrivare sempre più in profondità nelle falde, e disidratare ancora di più la città. 

Mi chiedo: ma davvero Delhi è così assolutamente senza speranza?
E se anche lo fosse, davvero è il paradigma per il mondo intero?


Rana Dasgupta, Delhi, Feltrinelli 2015
Traduzione di Silvia Rota Sperti
464 pagg.,  25,00 €



Commenti

  1. Nemmeno a me Delhi piace. Ho sentito addosso il suo respiro feroce, la polvere dei pensieri. Troppo. Come dici tu, il sogno nonostante tutto continua a essere l'anima di Bombay. Questo libro non mi sembra ispirato: Maximum City l'ho trovato intenso, bello. Questo è privo di anima. Un bacione!

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    1. Ci sono cose molto interessanti anche qui, in questo libro, che all'inizio mi aveva affascinato tantissimo. Poi il fascino un po' diminuito.
      Bombay e Maximum City d'altra parte sono imbattibili!

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