Al tempo della Partizione

di Moniza Alvi

È un poema che si legge un romanzo, con una narrazione dal ritmo incalzante, che si divora tutto di un fiato, per poi tornare a rileggere per assaporare meglio le immagini e le piccole parole capaci di disegnare interi mondi. 

Sono versi asciutti, veloci, minimali, che riescono con poco a descrivere molto, moltissimo, anche troppo. Che conquisteranno anche chi non è abituato a leggere poesia. 

Moniza Alvi è una poetessa nata a Lahore nel 1954 da padre pakistano e madre inglese, e arrivata a pochi mesi in Inghilterra. Il suo Al tempo della Partizione, pubblicato in Gran Bretagna in lingua inglese nel 2013, è una sorta di resa dei conti della sua vicenda familiare, che affonda le radici in uno dei momenti più assurdi della storia del subcontinente: quello della Partizione.


Nel 1947 India e Pakistan diventano due nazioni indipendenti e i politici tracciano la linea del loro confine. La nonna di Moniza Alvi è musulmana e abita a Ludhiana, in India; è costretta ad attraversare il confine per andare a vivere in Pakistan, visto che l'India non le appartiene più, non la vuole più. 

Nelle venti sezioni del poema, Alvi racconta questa storia, fatta di perdite, di violenza e di annullamento dell'identità, con grande pudore e cautela. 

Alvi si chiede fin da subito se la storia della sua famiglia sia lì "per farsi prendere". Se lei potrà prenderla e farne oggetto di una poesia. La risposta (va da sé) è sì, ma anche qui c'è una linea da tracciare e da non superare: alcune cose si possono dire, altre no. 

La nonna, rimasta vedova, è già stata segnata da una disgrazia: in seguito a un incidente, uno dei cinque figli è un "ragazzo con la mente danneggiata" e "in un esodo, un ragazzo così, cresciuto e non cresciuto, è destinato a perdersi". 

A un certo punto, di colpo, con le parole di Nehru lanciate come un bouquet sulle "folle oceaniche acclamanti di Delhi", arriva la mezzanotte del giorno in cui l'India si sveglia alla vita e alla libertà. Ma la nonna si ritrova dalla parte sbagliata della linea.

"Una linea così esile che un passero avrebbe potuto raccoglierla nel becco". 

Eppure, la linea sembra viva di vita propria, come un'entità sovrannaturale. 

"La linea era diventata una religione,
sembrava avesse il suo Dio"

Così Alvi si mette nelle scarpe di sua nonna, nelle "sue ciabatte appaiate nella fresca camera da notte", nel giorno in cui deve abbandonare la sua casa e tutto il suo mondo per andare in un Paese che per lei non significa nulla, il Pakistan.

"Pakistan, non c'era altro
                                Pakistan."

Mentre condiva il lassi
nelle impronte delle nocche sulla sfoglia

                                Pakistan.

Nelle pieghe del sari
mentre spazzava l'atrio
                                Pakistan.

Tra la domanda e la risposta
                                Pakistan."

Prima di salire sulla corriera della fuga (ma ci sarebbe voluto "un tappeto volante, finemente intrecciato, più ricco del sangue" per tenere unita la famiglia), non c'è neanche il tempo di un saluto, perché "l'orologio continuava a ticchettare". Nessun addio, quindi: agli amici indù, alle fabbriche e ai templi, alla città che sanguinava dentro ma che cercava di apparire intera, a quel figlio perduto affidato ad altri, nella fretta, e poi mai più ritrovato nel tumulto della Partizione. 

Poche e misurate parole ci portano nel cuore degli episodi più violenti della Partizione: gli stupri, gli eccidi, le mutilazioni. E in questi momenti la voce diventa corale, come se il filo narrativo si spostasse fra le mani della gente comune, con le loro voci che volava nel vento, come chiodi di acciaio. 

Per arrivare in una "terra di nessuno, terra di nessuna", che contiene il niente (niente cibo, niente acqua, niente case, niente nome) in mezzo a due fili spinati. E poi in un campo di rifugiati ai margini della città, dove l'incertezza del destino del figlio diviene sempre più grande. 

Fino a che, finalmente, la famiglia arriva a sistemarsi a Lahore. 

"Sistemarsi - con un figlio disperso?

Era meglio pensarlo
vivo o morto?"

E a chiedersi, dopo tutte queste perdite, che cosa aveva guadagnato. Il Pakistan? Un nuovo Paese? 

"Un paese era un posto troppo grande da contemplare." 

Solo alla fine la nonna riesce a pensare di riattraversare quella linea, così esile che un passero avrebbe potuto raccoglierla nel becco e così forte da ridisegnare le geografie personali di un intero continente. 

Nel leggere i versi di Moniza Alvi viene quasi naturale pensare a Saadat Hasan Manto, cantore delle assurdità della Partizione. Anche i suoi sublimi racconti sulla Partizione dipingono quella linea di confine tracciata sulla carta che ha diviso famiglie e paesi e che contiene il nulla al suo interno, una terra di nessuno che non può essere né indiana né pakistana, e che quindi non ha senso, diventando un vuoto capace di inghiottire l'uomo, le amicizie, i ricordi.

Entrambi gli autori, Manto e Alvi, non a caso sono pubblicati in Italia dalla stessa coraggiosa casa editrice, Fuorilinea, che dell'esplorare mondi lontani attingendo a giacimenti letterari poco noti ha fatto la sua missione. 

A questo proposito, due parole anche sull'edizione italiana: bellissima nella sua semplicità, con un'ottima traduzione (a cura di Paola Splendore) e il testo a fronte (anche a chi non mastica perfettamente l'inglese consiglio di provare a leggere in lingua originale).


Moniza Alvi,  Al tempo della Partizione, Fuorilinea 2020
a cura di Paola Splendore 

136 pagg.,  13 

Commenti

  1. Non pratico abitualmente la poesia ma questo post è un incoraggiamento a farlo, magari proprio con questo libro. Grazie Silvia.

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    1. Anche io non leggo moltissima poesia, ma in questo caso è (quasi) come leggere un racconto perché c'è una vera e propria storia. Buona lettura!

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    2. Letto. Davvero una forma di narrazione in poesia. Bella e terribile, soprattutto per ciò che non dice.

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    3. Mi fa piacere che tu l'abbia letto!
      È vero, c'è tutto un non detto che arriva comunque al lettore.

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