La bambina che non poteva sognare
di Bina Shah
In seguito al trionfo di The millionaire e alle relative polemiche indiane, e in realtà anche di altri libri o film sull'India che parlano della povertà delle baraccopoli, ho letto più volte questo commento indispettito su siti, blog e giornali indiani: ma cos'è che ci trova l'Occidente nei nostri slum?
Commento che, in forma diversa ma uguale nella sostanza, ho sentito più volte anche di persona: a molti indiani risulta del tutto incomprensibile come si possa passare una vacanza con i bambini di uno slum, di sicuro agli indiani delle classi sociali più alte, ma ancora di più agli abitanti stessi degli slum.
Però è sempre più evidente: a sentire parlare di baracche, di fogne a cielo aperto, di vita passata fra rifiuti con troppe bocche da sfamare, ma (forse) con un più forte spirito comunitario, l'Occidente benestante si commuove (senza polemica, mi ci metto dentro anche io).
Mi sono data due spiegazioni. Una ottimista: l'Occidente, nella sua ricerca dell'altro, va finalmente a investigare gli aspetti meno esotici e più veri di altre culture, magari aiutato dal retaggio cristiano di aiutare il prossimo. L'altra pessimista: è semplicemente il termine ultimo della decadenza della società occidentale, che - per dirla con le parole della Tigre bianca, visto che siamo in tema di libri che parlano dei poveracci - sta "precipitando nell'abisso della sodomia, della tossicodipendenza e dell'abuso di telefonia mobile" e quindi va a cercare i poveri degli slum con la vaga idea di aiutarli perché non sa più che cosa inventarsi.
Propendo per la seconda (anche qui, senza polemica...).
Tutta questa divagazione preventiva ancor prima di iniziare a parlare è in realtà solo per dire che è da poco uscito un libro ambientato nello slum di Karachi. Non siamo quindi in India ma in Pakistan, però il discorso è sostanzialmente simile. Il titolo inglese è Slum child, tanto per non avere dubbi, tramutato in La bambina che non poteva sognare. L'autrice, Bina Shah, è una giovane scrittrice pakistana, che avevo conosciuto attraverso un racconto, The wedding of Sundri, molto duro, sugli omicidi d'onore in Pakistan.
Presa anche io nel gorgo irreversibile della decadenza, sono subito corsa a comprare il libro. E' la storia di Laila, una bambina di religione cristiana in una società musulmana, che sperimenta le sofferenze di chi nasce in uno slum: la morte e la malattia dei familiari più cari, l'ambiente malsano, il rischio di essere venduta in un bordello e quello di subire le violenze dello zio, fino ad approdare come domestica nella casa di una ricca famiglia, in cui troverà cibo e vestiti ma non certo affetto e dignità.
Ci sono alcuni aspetti che ho apprezzato (certi personaggi, certe descrizioni, l'ambiguità del rapporto fra ricchi e poveri), altri meno (per esempio il finale: se poi qualcuno mai lo leggerà, non mi dispiacerebbe parlarne).
Ma c'è il fatto che Laila, nel raccontare la sua storia in prima persona parla come parlerebbe l'autrice, non certo come una "slum child". Ormai mi ero abituata a libri come La Tigre Bianca o Animal in cui entrare nelle tenebre della povertà significa anche parlarne la lingua, o almeno provarci (non che poi questa sia chissà quale novità nella narrativa mondiale).
Qui invece mi è sembrato fermarmi un passo prima, al di qua del confine che divide il mondo dei ricchi dallo slum, il paradiso dall'inferno, e di vedere tutto da fuori. Che è poi sempre meglio di non vedere affatto, però non è neanche come andare fino in fondo, al cuore di quella degradazione che popola gli slum del subcontinente e le nostre anime.
Commento che, in forma diversa ma uguale nella sostanza, ho sentito più volte anche di persona: a molti indiani risulta del tutto incomprensibile come si possa passare una vacanza con i bambini di uno slum, di sicuro agli indiani delle classi sociali più alte, ma ancora di più agli abitanti stessi degli slum.
Però è sempre più evidente: a sentire parlare di baracche, di fogne a cielo aperto, di vita passata fra rifiuti con troppe bocche da sfamare, ma (forse) con un più forte spirito comunitario, l'Occidente benestante si commuove (senza polemica, mi ci metto dentro anche io).
Mi sono data due spiegazioni. Una ottimista: l'Occidente, nella sua ricerca dell'altro, va finalmente a investigare gli aspetti meno esotici e più veri di altre culture, magari aiutato dal retaggio cristiano di aiutare il prossimo. L'altra pessimista: è semplicemente il termine ultimo della decadenza della società occidentale, che - per dirla con le parole della Tigre bianca, visto che siamo in tema di libri che parlano dei poveracci - sta "precipitando nell'abisso della sodomia, della tossicodipendenza e dell'abuso di telefonia mobile" e quindi va a cercare i poveri degli slum con la vaga idea di aiutarli perché non sa più che cosa inventarsi.
Propendo per la seconda (anche qui, senza polemica...).
Tutta questa divagazione preventiva ancor prima di iniziare a parlare è in realtà solo per dire che è da poco uscito un libro ambientato nello slum di Karachi. Non siamo quindi in India ma in Pakistan, però il discorso è sostanzialmente simile. Il titolo inglese è Slum child, tanto per non avere dubbi, tramutato in La bambina che non poteva sognare. L'autrice, Bina Shah, è una giovane scrittrice pakistana, che avevo conosciuto attraverso un racconto, The wedding of Sundri, molto duro, sugli omicidi d'onore in Pakistan.
Presa anche io nel gorgo irreversibile della decadenza, sono subito corsa a comprare il libro. E' la storia di Laila, una bambina di religione cristiana in una società musulmana, che sperimenta le sofferenze di chi nasce in uno slum: la morte e la malattia dei familiari più cari, l'ambiente malsano, il rischio di essere venduta in un bordello e quello di subire le violenze dello zio, fino ad approdare come domestica nella casa di una ricca famiglia, in cui troverà cibo e vestiti ma non certo affetto e dignità.
Ci sono alcuni aspetti che ho apprezzato (certi personaggi, certe descrizioni, l'ambiguità del rapporto fra ricchi e poveri), altri meno (per esempio il finale: se poi qualcuno mai lo leggerà, non mi dispiacerebbe parlarne).
Ma c'è il fatto che Laila, nel raccontare la sua storia in prima persona parla come parlerebbe l'autrice, non certo come una "slum child". Ormai mi ero abituata a libri come La Tigre Bianca o Animal in cui entrare nelle tenebre della povertà significa anche parlarne la lingua, o almeno provarci (non che poi questa sia chissà quale novità nella narrativa mondiale).
Qui invece mi è sembrato fermarmi un passo prima, al di qua del confine che divide il mondo dei ricchi dallo slum, il paradiso dall'inferno, e di vedere tutto da fuori. Che è poi sempre meglio di non vedere affatto, però non è neanche come andare fino in fondo, al cuore di quella degradazione che popola gli slum del subcontinente e le nostre anime.
Il rischio in effetti, vista la prontezza di autori, agenti ed editori nel fiutare le correnti vorticose del business, è che si crei una specie di letteratura di genere, tipo "slum lit".
RispondiEliminaE che magari non ci accorgiamo dei microslum che si stanno creando nelle nostre città, sotto i ponti, sotto i tombini, negli anfratti dimenticati della nostra civiltà.
("What do you think about western civilization?" "Oh, it wouldn't be a bad idea" -- Gandhi ai giornalisti inglesi, sbarcando dal piroscafo).
Non so se sia solo una moda, oppure vero e proprio genere che si sta creando. Chi lo sa, vedremo...
RispondiEliminaComunque c'è un'altra "slum novel" che è da un po' che mi tormenta che però per il momento ho lasciato lì: "Il bambino con i petali in tasca". E in effetti parlare di bambini è sempre preferibile...
Certo, ci sono anche i microslum dalle nostre parti, negli anfratti delle nostre città/civiltà e secondo me sempre di più nelle nostre coscienze (che, se possono, ignorano quelli reali).
Tanto per restare in argomento, mi sono appena accorta di un libro (non di argomento indo-pakistano, questa volta) sempre dello stesso genere: "La bambina con i sandali bianchi", questa volta che parla di algerini in Francia in bidonville francese.
RispondiEliminaCerto che fra titoli e foto di copertina si sono proprio sforzati di essere vari e originali...
Thank you for reading and reviewing my book, "La Bambina Che Non Poteva Sognare". You might be interested to know that Vikas Swarup and I share the same literary agent; I had completed "Slum Child" (the English language original of La Bambina) in 2006 - Vikas's book "Q & A" (on which "Slumdog Millionaire" the movie was based) was published in 2005 and had already become a best-seller.
RispondiEliminaI do not think this is a new genre of literature - "slum-lit" as you call it - but rather an attempt by us in South Asia to chronicle the lives of people who make up the vast majority of our countries. I do not wish to profit financially from exploiting anybody in that population; the basis of the book came from my work as a college student in a Karachi slum with Christian children who had mental and physical disabilities and I wanted to capture their spirit and resilience.
As for your concern that the voice of Laila, the protagonist, is too much like my own, I decided at the beginning to write the book with the assumption that a girl from a slum could be as intelligent as anyone else in the world, and to give her an eloquent and thoughtful voice that would match that internal intelligence. I felt it would be condescending to write from her point of view as if she were uneducated or less aware and perceptive about the world around her (she is neither).
Again, thanks for reading my book and I do hope that you enjoyed some of it.
Dear Bina,
RispondiEliminait is a great pleasure to read your comment and to have the author's view on the subject. Thanks a lot!
I do not question the good intentions of South-Asian authors who write about slums. I think you are doing a great job in describing the lives of the majority of families in your countries.
My point is about how these stories are read by the 'West' (I do not like to divide the world in 'West' and 'Not-West', but let me do it for the moment - or I might just say 'here, in Italy') and why there has been an increasing interest in the last years.
If on one hand there is a genuine interest in stories of the slum dwellers, on the other there is also a sort of morbid curiosity mixed with a paternalist view.
(Of course, I am one of those people interested in slums: I have read a lot about them, and I spent some time teaching to slum children in Mumbai. That's why I immediately bought your book the day it came out!)
So I always wonder why we have now such a strong interest (and, by the way, we are still doing absolutely nothing about it). And, as Giri Mandi was pointing out in his comment above, why instead we forget about our own poor, not so 'exotic' as the ones in India or in Pakistan.
About a 'slum lit'. I do not think it is a genre (yet), but the Italian publishing houses are trying to suggest - if not a genre - a trend: many novels are entitled 'the child who...', they use similar pictures of a poor, cute child on the cover and similar sentences on the back cover.
Having said that, I did like a lot of your book: the characters, the relationship between Laila and Maryam (who needs who?), the impressive descriptions (the day on the beach, the visit to the 'Chacha', the Eid), the ambiguity in the relationship between the rich and the poor.
No doubt about the intelligence of Laila, and of any slum child – not only intelligent, but also brave, smart, sensitive... It is just that when I read a novel I feel much closer to the characters if they speak their own language, as I find them more authentic. In this case, as the novel is in first person from Laila's point of view, I felt Laila a bit distant, filtered by a language that was not hers but somebody else’s.
Can I ask you how the book has been received in Pakistan?
Thanks a lot again for your comment, dear Bina!
Ma come fate a dire che la "grande maggioranza della popolazione" del subcontinente vive negli slum? E' una retorica che non fa certo bene al problema, di per sé gravissimo. Secondo il censimento indiano del 2001 il totale della popolazione degli slum in India non arrivava a cinquanta milioni (42.578.150). Mettiamo pure che il governo dia cifre taroccate per nascondere il problema (non è detto), e che gli slum-dwellers siano il triplo o il quadruplo o il quintuplo (centosettanta milioni, secondo una stima ONU più recente). Cifre enormi e raccapriccianti, ma è la "grande maggioranza della popolazione"?
RispondiEliminaNo, in effetti è un errore grossolano e chiedo umilmente scusa.
RispondiEliminaPenso che ci sia stato un mix di due piani (almeno nella mia lettura del messaggio di Bina e di conseguenza nella mia risposta): quello che io ho inteso dal discorso di Bina è che loro stanno cercando di descrivere la vita della maggioranza più povera (generica) e non di un'élite di agiati.
(anche se poi è vero che qui parliamo solo dei poveri "urbani")
Giusto qualche giorno fa leggevo questi dati sul Pakistan (sto mica pensando di andare in Pakistan? sì, ovvio, anche se forse non è il momento migliore): il 70% della popolazione urbana (che comunque è solo il 34% della popolazione totale, quindi decisamente una minoranza) sono slum dwellers. Cerco di immaginarmi le città pakistane...
Silvia, the book has not come out yet in Pakistan! Italy is the first country. Next will be in Spain. Then maybe Pakistan - inshallah!
RispondiEliminaThe vast majority of South Asia lives in poverty, whether in the slums or in the villages. I wanted to look at the way a poor person lives in my city; but village poverty is equally difficult.
Ah, for once Italy is the first...
RispondiEliminaLet me know when it comes out in Pakistan!
http://www.westlandbooks.in/book_details.php?cat_id=4&book_id=217
RispondiElimina