Nessun dio in vista
di Altaf Tyrewala (qui un articolo di The Hindu su di lui)
Ovvero Bombay che si guarda allo specchio, di fretta, camminando, senza fermarsi
Ovvero Bombay che si guarda allo specchio, di fretta, camminando, senza fermarsi
Ancora un libro su Bombay.
La copertina dell'edizione italiana è rosa, con un dipinto di una locandina di un film di Bollywood, Devdas, e una donna in sari che passa imbronciata davanti. Un po' harmony, un po' kitsch, molto bollywoodiano. Fra il pop e lo stereotipo (fra l'altro, mi piace molto).
La copertina indiana è nera, con mani disperate che si alzano al cielo. Sembra un volantino degli anni Ottanta di Amnesty International, con le mani di desaparesidos o di vittime di tortura.
Rosa e nero. A seconda che nella Bombay dei molteplici personaggi di questo romanzo ci si viva oppure no.
Rosa e nero. A seconda del colore della pelle, come direbbe il mio amico Prem che ama scherzare sulle nostre diversità di colore (perché, sia chiaro, la pelle occidentale non è bianca: è rosa).
Rosa e nero. Bombay e Mumbai. Non due nomi diversi per la stessa città, ma due città diverse. “Bombay, dove tutto è in orario. Mumbai, che si nutre degli avanzi di Bombay.”
Su una cosa le due copertine però sembrano concordare: sotto c'è una storia veloce, rapida, pungente e ironica, come un videoclip di Mtv. Una storia che storia non è: se mai è un collage, un puzzle, un patchwork di una città multiforme.
Si inizia con la signora Khwaja, un'ex-poetessa rassegnata alla quotidianità dell'età. Otto righe.
Poi si passa al signor Khwaja, il marito. Sette righe.
Poi il figlio, perennemente attaccato a internet. Sei righe.
La figlia, il giorno in cui va ad abortire. Tre pagine (in effetti, qui la faccenda è un po' più complicata).
E poi: il poliziotto, il mendicante, il manager, il medico abortista, il commerciante di scarpe, il venditore di pan, lo studente di poesia urdu, il macellaio di polli (“il giustiziere di forme di vita inferiori”, uno dei miei preferiti). Dieci righe, una pagina, tre pagine, due righe, mezza pagina.
Mai più di dieci pagine, lo spazio massimo che ogni personaggio, in una città sovraffollata e frenetica, ha per raccontarsi, rigorosamente in prima persona, sempre con tratti concisi e sicuri.
In 160 pagine e in un paio d'ore, percorriamo così tutta Bombay, con il testimone della narrazione che passa casualmente da un personaggio a un altro, attraverso un legame familiare, un incontro casuale, un caso di omonimia, un rapporto di lavoro. Senza pause. Tutti parlano, nessuno si parla. Con molta religione (e tutti i suoi conflitti), ma senza alcun dio, proprio nel paese dei trecento milioni di dei.
Per definire questo libro, mi verrebbe in mente una parola che, se non contenesse un giudizio negativo, sarebbe perfetta: superficiale. Ognuno parla di sé, nello spazio immediato di uno sfogo, nel tempo di un brevissimo autoritratto.
Ma forse la parola giusta, più che superficiale, è bidimesionale. Ci si muove nello spazio e nel tempo della Bombay di oggi, ma manca una terza dimensione.
Io ho sempre pensato, al di là dell'India e di Bombay, che dentro l'assenza di quel dio unificatore suggerita dal titolo ci stia in realtà un bel po' di roba. Inevitabilmente e volutamente, per il modo in cui questo libro è scritto e per la sua originalità, è proprio questa la dimensione che manca. La dimensione di quell'assenza.
La copertina dell'edizione italiana è rosa, con un dipinto di una locandina di un film di Bollywood, Devdas, e una donna in sari che passa imbronciata davanti. Un po' harmony, un po' kitsch, molto bollywoodiano. Fra il pop e lo stereotipo (fra l'altro, mi piace molto).
La copertina indiana è nera, con mani disperate che si alzano al cielo. Sembra un volantino degli anni Ottanta di Amnesty International, con le mani di desaparesidos o di vittime di tortura.
Rosa e nero. A seconda che nella Bombay dei molteplici personaggi di questo romanzo ci si viva oppure no.
Rosa e nero. A seconda del colore della pelle, come direbbe il mio amico Prem che ama scherzare sulle nostre diversità di colore (perché, sia chiaro, la pelle occidentale non è bianca: è rosa).
Rosa e nero. Bombay e Mumbai. Non due nomi diversi per la stessa città, ma due città diverse. “Bombay, dove tutto è in orario. Mumbai, che si nutre degli avanzi di Bombay.”
Su una cosa le due copertine però sembrano concordare: sotto c'è una storia veloce, rapida, pungente e ironica, come un videoclip di Mtv. Una storia che storia non è: se mai è un collage, un puzzle, un patchwork di una città multiforme.
Si inizia con la signora Khwaja, un'ex-poetessa rassegnata alla quotidianità dell'età. Otto righe.
Poi si passa al signor Khwaja, il marito. Sette righe.
Poi il figlio, perennemente attaccato a internet. Sei righe.
La figlia, il giorno in cui va ad abortire. Tre pagine (in effetti, qui la faccenda è un po' più complicata).
E poi: il poliziotto, il mendicante, il manager, il medico abortista, il commerciante di scarpe, il venditore di pan, lo studente di poesia urdu, il macellaio di polli (“il giustiziere di forme di vita inferiori”, uno dei miei preferiti). Dieci righe, una pagina, tre pagine, due righe, mezza pagina.
Mai più di dieci pagine, lo spazio massimo che ogni personaggio, in una città sovraffollata e frenetica, ha per raccontarsi, rigorosamente in prima persona, sempre con tratti concisi e sicuri.
In 160 pagine e in un paio d'ore, percorriamo così tutta Bombay, con il testimone della narrazione che passa casualmente da un personaggio a un altro, attraverso un legame familiare, un incontro casuale, un caso di omonimia, un rapporto di lavoro. Senza pause. Tutti parlano, nessuno si parla. Con molta religione (e tutti i suoi conflitti), ma senza alcun dio, proprio nel paese dei trecento milioni di dei.
Per definire questo libro, mi verrebbe in mente una parola che, se non contenesse un giudizio negativo, sarebbe perfetta: superficiale. Ognuno parla di sé, nello spazio immediato di uno sfogo, nel tempo di un brevissimo autoritratto.
Ma forse la parola giusta, più che superficiale, è bidimesionale. Ci si muove nello spazio e nel tempo della Bombay di oggi, ma manca una terza dimensione.
Io ho sempre pensato, al di là dell'India e di Bombay, che dentro l'assenza di quel dio unificatore suggerita dal titolo ci stia in realtà un bel po' di roba. Inevitabilmente e volutamente, per il modo in cui questo libro è scritto e per la sua originalità, è proprio questa la dimensione che manca. La dimensione di quell'assenza.
Direi che questo è libro che fa per me: non troppo lungo, non troppo impegnativo, che si legge velocemente ma con tanto materiale e personaggi dentro... Bene, lo leggerò sicuramente!
RispondiEliminaBellissimo il confronto fra le due copertine!
Bene, fammi sapere quando lo hai letto!
RispondiEliminaIl confronto di copertine è nato per caso, quando ho visto la copertina indiana navigando su internet... ma ora per ogni libro che leggo guarderò anche com'è la rispettiva copertina originale!
anche a me piace l'idea degli stretti spazi per i tanti personaggi, chiara idea di moltitudine :)
RispondiEliminavoglio andare a Mumbay!!!!!!!
ps. ma una divagazione sulla cina la potresti fare no!? sono curiosa ;)
Anche io voglio tornare a Mumbai... anzi, devo!
RispondiEliminaok, ok, dirò qualcosa sulla Cina... ma prima lasciami esaurire il mio turbine mentale su Mumbai!
anche io voglio sapere della Cina!
RispondiEliminaSo che l'India ti piace di più, che hai fatto questo blog per parlare dell'India e non della Cina ma noi siamo curiosi!
(e poi con questo dire-non dire mi hai reso acnora più curiosa)
Ok, ho capito... ne parlero'.
RispondiEliminaQuel dire-non dire non voleva creare false aspettative, te lo giuro!
bel post Silvia!
RispondiEliminaVolo a comprarmi il libro, di cui so già che la penserò come te, e alla fine avrò nostalgia di quell'assenza...
a presto,
cris
Grazie Cris della fiducia!
RispondiEliminaFammi poi sapere se veramente l'hai pensata come me (e soprattutto se invece l'hai pensata diversamente!)
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