Mahasweta Devi
Draupadi è ora in piedi davanti a lui. Nuda, le cosce e il pube chiazzati di sangue rappreso. I seni, due ferite aperte. Cosa sta succedendo? sta per sbraitare. Dritta davanti a lui, con le mani sui fianchi, ride e dice: -L'oggetto della tua caccia, Dopdi Mejhen. Sei stato tu a dirgli di stuprarmi, non vuoi vedere come stati bravi?
Adivasi. Ho conosciuto per la prima volta questo mondo cinque anni fa, nel mio primo viaggio in Kerala. Dovevamo andare a trovare uno scrittore che viveva con gli adivasi nell'entroterra del Kerala, sperduto in mezzo alle piantagioni di tè, e che scriveva nella loro lingua. Siamo arrivati fino a un certo punto, ma non abbiamo potuto proseguire oltre perché il governo aveva bloccato l'ingresso agli stranieri nella zona per questioni di sicurezza. Pochi giorni prima erano successi dei fatti violenti, iniziati con una protesta degli adivasi e finiti nel sangue con l'intervento della polizia.
E' da allora che ho iniziato ad interessarmi a loro. Gli adivasi sono gli appartenenti alle popolazioni tribali indigene, spesso anche chiamati tribali o aborigeni. Spesso sfruttati, marginalizzati, vittime di discriminazioni, razzismo e violenza.
Da allora non sono più riuscita a incontrare quello scrittore, ma loro li ho ritrovati qualche tempo dopo, nelle mie letture. Dalla parte opposta dell'India, nel Bengala occidentale, lo stato di Calcutta. Ancora sfruttati, marginalizzati, vittime di discriminazioni, razzismo e violenza.
Li ho ritrovati nei racconti di Mahasweta Devi, una delle più grandi scrittrici contemporanee in lingua bengali, che ha dedicato tutta la sua vita ai diritti degli esclusi. Mahasweta Devi, oggi ottantenne, nata a Dacca quando il Bangladesh ancora non esisteva e residente a Calcutta, scrive di contadini, braccianti, fuoricasta e adivasi, vittime estreme la cui vita vale meno di quella delle bestie. E scrive soprattutto delle donne, ultimo anello di questa catena di sopraffazione, del loro corpo martoriato che rimane l'unico, indispensabile, strumento di lotta e ribellione.
Lei stessa definisce i suoi scritti (42 volumi di racconti, romanzi e opere teatrali) duri, spietati, brutali, letali, necessari. Perché smascherano la brutalità di un'India intrinsecamente feudale, progettata per garantire il benessere alle classi privilegiate attraverso lo sfruttamento di milioni di persone.
In quest'India nuda appaiono allora le ferite inferte agli ultimi, agli esclusi dal sogno del progresso, su un corpo oltraggiato, massacrato, denudato, che non dovrebbe nascondersi perché la vergogna non è sua, ma di chi l'ha così brutalmente ferito e oltraggiato.
Come il corpo della protagonista di Draupadi, il primo racconto della raccolta La preda, pubblicata in italiano da Einuadi, da cui provengono le righe iniziali di questo post. E allora, come in Draupadi, diventa necessario mostrare le ferite di quell'indegna violenza istituzionalizzata, prepotente e vigliacca che, una volta smascherata, ha vergogna e paura di se stessa.
Come il corpo della protagonista di Draupadi, il primo racconto della raccolta La preda, pubblicata in italiano da Einuadi, da cui provengono le righe iniziali di questo post. E allora, come in Draupadi, diventa necessario mostrare le ferite di quell'indegna violenza istituzionalizzata, prepotente e vigliacca che, una volta smascherata, ha vergogna e paura di se stessa.
Mahasweta Devi scrive, inevitabilmente, in una lingua aspra, dura, fatta di frasi brevi, spezzate, con un ritmo scostante e sincopato. Come aspra, dura e spezzata è l'esistenza dei protagonisti dei suoi racconti.
Nella postfazione di Anna Nadotti della Preda si legge che il suo è un bengali sporco, contaminato dalla presenza di hindi, inglese e dialetti tribali. Perché anche lo sporco è necessario, quando, nella sporchissima India, è lo sporco soprattutto vero, reale.
Anche i tempi verbali si contaminano, il presente irrompe di colpo sul passato remoto, passato prossimo di colpo diventa presente, proprio come il presente doloroso irrompe nella foresta ancestrale degli adivasi.
Foresta che, in Kerala come nell'India orientale, è poi il luogo da cui tutti vengono, tribali o ingegneri informatici. Il luogo da cui tutti veniamo, nella spietata, violentissima lotta nella giungla dei nostri privilegi.
Foresta che, in Kerala come nell'India orientale, è poi il luogo da cui tutti vengono, tribali o ingegneri informatici. Il luogo da cui tutti veniamo, nella spietata, violentissima lotta nella giungla dei nostri privilegi.
forte e crudo, non c'è che dire, una delle molte facce dell'India. Grazie per avercene. Pensavo che di popolazioni tribali ne fossero rimaste solo in Orissa.
RispondiEliminaIn effetti penso che l'Orissa sia uno degli stati con più adivasi.
RispondiEliminaPer quanto ho avuto modo di vedere, anche in Kerala sono parecchi (fanno tutti i braccianti nelle piantagioni di tè).
Ho letto comunque che in tutta l'India i tribali sono circa 80 milioni (a seconda della fonte il numero cambia leggermente). Rispetto alla popolazione dell'India sono "solo" l'8%, ma è pur sempre più della popolazione dell'Italia! (un po' come tutte le minoranze in India... sono minoranze perché l'India è enorme)
Ciao Silvia!
RispondiEliminaFinalmente leggo il tuo blog.
Mi ha interessato questa cosa delle popolazioni tribali.
Cercherò di leggere qualcosa di questa autrice, mi sembra veramente una "tosta".
Un saluto.