Eredi della sconfitta

di Kiran Desai

Kiran Desai l'ho conosciuta (letterariamente) in Inghilterra nel 2002, in una libreria dove ho trovato, appena pubblicato, il suo primo romanzo La mia nuova vita sugli alberi. Il libretto non era un capolavoro, ma era simpatico e carino e ne avevo proposto una recensione a un sito su cui scrivevo, ma la titolare del sito mi aveva risposto che era un'autrice troppo sconosciuta e quindi non valeva la pena recensirla. Se avesse saputo che avrebbe vinto il Booker Prize pochi anni dopo, forse l'avrebbe recensita con molto piacere (l'ho sempre detto, dovrei fare la talent scout, ma nessuno mi considera...).

Poi l'ho conosciuta al festival di Mantova (di persona), ma l'ho vista subito dopo Vikram Chandra e, poverina, non ha retto neanche lontanamente il paragone con il mio idolo letterario.

L'ho poi rincontrata a Shanghai (questa volta di nuovo letterariamente), in una libreria internazionale dove cercavo disperatamente un libro per affrontare le 11 ore di volo del ritorno. Avrei voluto un libro cinese, ma i pochi tradotti in inglese li avevo già letti e così ho comprato il suo secondo romanzo Eredi della sconfitta, Booker Prize nel 2006. Ed è così che le 11 ore di volo sono passate immerse nella lettura.
La storia narrata è ambientata nel villaggio di Kalimpong sull'Himalaya, in cui però si rispecchiano gli echi di un confuso mondo globale che porta il dolore, più che la speranza, di un malriuscito multiculturalismo denso di emarginazione e violenza.
La narrazione è spesso spezzattata, con brevi flash-back, con avanti e indietro nel tempo, nei luoghi, nei personaggi. Unisce il tutto una casa fatiscente e decadente (ambientazione che un po' ricorda quella di Chiara luce del giorno della madre Anita) immersa nella nebbia, nel fango e nell'umidità dell'Himalaya indiano al confine fra Buthan, Nepal, Tibet degli anni Ottanta, in cui convivono una giovane ragazza rimasta orfana, un giudice in pensione e un cuoco (e un cane).
Quello che li accomuna è proprio l'eredità della sconfitta, il destino di perdita, la mancanza di una identità precisa, identità definita solo in negativo: quello che non sono, quello che non vogliono.
Il cuoco, o meglio il tutto-fare della casa, perfetto nel suo ruolo di servitore, vive quasi unicamente per le lettere che riceve dal figlio emigrato negli Stati Uniti che gli assicura di essere diventato un manager di catene di ristoranti, ma in realtà gira i peggio ristoranti di New York come sguattero e lavapiatti. Anche lui, con una identità non chiara di immigrato clandestino senza documenti né patria.

Sai, la giovane orfana appena uscita dal collegio delle suore dove ha imparato a parlare unicamente l'inglese, va a vivere con il nonno giudice, l'unica persona che le è rimasta al mondo. Già alle prese con la perdita dei genitori, dovrà vedersela anche con un giovane tutore in bilico fra l'amore nei suo confronti e la lotta rivoluzionaria pro-nepalese negli anni dell'insurgenza dei Gorkha.

Il giudice Patel, burbero e scorbutico, ha invece un passato fatto di solitudine durante gli studi a Cambridge, isolato perché indiano in Inghilterra, e un presente ancora più desolato, da anglofilo in India. Vive estraniato da se stesso, quasi alla ricerca del distacco dai suoi simili che lo circondano, in fuga da ogni intimità o relazione umana.

Kiran Desai descrive bene il senso di spaesamento di questi indiani che indiani vorrebbero non essere e che nel loro tentare di essere americani o inglesi si ritrovano invece "indiani estraniati che vivono in India”. Così come la descrizione della vita di immigrato clandestino negli Stati Uniti è molto coinvolgente. Meno credibile, invece, è la descrizione dei personaggi più poveri di Kalimpong, degli insorti (se mi lasciate dire una cattiveria, forse i più lontani dalla sua esperienza di figlia d'arte di una ricca famiglia indiana con studi all'estero), visti un po' troppo come rivoluzionari ottusi e ignoranti, come se, al di là del giudizio politico su quella rivolta, avere invece una identità precisa volesse automaticamente dire non avere più una psicologia, una propria umanità.

Commenti

  1. L' ho letto qualche mese fa'.
    La madre la considero, a parte Rushdie, tra i migliori scrittori/scrittrici indiani/e, "chiara luce del giorno" è talmente bello da sembrare una "sinfonia".
    Mi è paiciuto molto questo libro fin dal titolo, davvero bellissimo.
    Sto riflettendo su cio' che dici a proposito dei personaggi più poveri, non so, forse è anche vero, però non posso far a meno di ammirare la straordinaria descrizione di tutto il resto: i personaggi, il senso di perdita, l' ambiente che li circonda che è tutt' uno con lo stato d' animo dei personaggi stessi.

    Ti dico ancora dopo mesi mi è rimasto dentro in modo forte.

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  2. Ciao Graziano e grazie per il tuo commento!
    Lo ritengo anche io un bel libro, ma secondo me non è ancora ai livelli di un libro maturo, pienamente completo. Insomma, ho qualche riserva.
    (ecco, invece Chiara luce del giorno è proprio un libro "perfetto"! In un certo senso "Eredi della sconfitta" ricorda anche un po' "Fuoco sulla montagna" della desai madre)

    Mentre alcuni personaggi sono molto ben descritti, altri (appunto, quelli più poveri) sono abbozzati in modo un po' superficiale, almeno secondo me! Per esempio il tutore non è bel descritto, un po' come tutta la sua comunità, che pure ha una parte importante nella storia e fa parte di quel paesaggio umano che popola questo Himalaya difficile e per niente idilliaco.

    Secondo me in questo senso il personaggio riuscito meglio è proprio il figlio immigrato negli Stati Uniti, perso fra identità diverse, senza futuro e senza passato.

    Comunque sono d'accordo con te, è un libro che non lascia indifferenti e che ha tanto da dire.

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  3. Ciao Silvia,
    mi accingo ad iniziare a scrivere la mia tesi di laurea e la scelta è caduta proprio su Kiran Desai e il suo The Inheritance of Loss.. hai qualche lettura da consigliarmi per comprendere meglio l'autrice o il periodo storico (la guerra del Gorkhaland degli anni '80) o qualcos'altro che possa illuminare il mio cammino? :-)
    Ti ringrazio. Jennifer

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  4. Cara Jenny,
    complimenti per la scelta della tesi!
    Non leggo quasi mai (per mancanza di tempo) veri e proprio libri di critica letteraria, più che altro leggo le recensioni su giornali o riviste. Mi ricordo di questo articolo del Guardian, che in mezzo a tutte le critiche entusiaste, trovava il libro non del tutto coinvolgente:
    http://www.guardian.co.uk/books/booksblog/2009/nov/06/the-inheritance-of-loss-kiran-desai

    Sulla guerra del Gorkhaland un amico mi aveva consigliato questo libro:

    Gorkhaland movement: a study in ethnic separatism
    (di Amiya Samanta)

    ma poi non l'ho più letto, forse però può essere di tuo interesse.
    Tienimi aggiornata!

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