L'India a Torino: piccole osservazioni
Potrei essere un po' polemica e dire che il Salone del libro è stata tutta una grande abbuffata commerciale, che lo spazio per l'India, Paese ospite, era veramente ristretto, che il rumore e la folla erano esagerati, che molte cose avrebbero essere dovute approfondite di più, che i relatori avrebbero potuto leggere i libri di cui parlavano e così via.
Però alla fine sono stati tre giorni molto piacevoli, ricchi di scambi accanto ai "miei" scrittori, che mi hanno lasciato tanti piacevoli ricordi.
Ecco alcune osservazioni, opinabili, arbitrarie e del tutto condizionate dai soli incontri a cui sono riuscita a partecipare.
Prima di tutto, sicuramente un grande interesse da parte del pubblico verso gli scrittori indiani.
D'altra parte avevo fatto un giro in libreria la settimana prima del Salone: nuovi autori indiani erano spuntati come funghi e i titoli indiani fra gli scaffali erano decisamente aumentati (inflazionati?).
In molti incontri del Salone, come per esempio quelli di Tarun Tejpal, di Altaf Tyrewala, di Vikas Swarup, ma anche di Indra Sinha e di Kiran Nagarkar (che ho particolarmente ammirato per la profondità e l'equilibrio), è emersa la tematica di rappresentare un'India diversa rispetto a quella proposta dalla veste ufficiale, luccicante e sulla strada di un inarrestabile sviluppo economico. Ecco invece allora quell'immagine fatta di slum, violenza, corruzione e anche di fondamentalismo religioso delle grandi metropoli, di cui parlavamo qualche tempo fa anche su questo blog.
Non solo una moda, sembrerebbe, ma anche una necessità di contestare una versione ufficiale che non tiene neanche conto di un altro mondo più oscuro, delle masse senza diritti sacrificate al progresso.
Un altro filone mi è sembrato invece quello delle storie di tipo familiare, unite a una riflessione sui valori tradizionali in quest'India in cambiamento, spesso declinate al femminile, spesso dolorose, e in spazi e luoghi diversi quelli delle grandi metropoli. In particolare ho trovato interessanti gli incontri con Tishani Doshi e con Anita Nair, che fino a qui non apprezzavo molto, ma le letture dal suo ultimo romanzo L'arte di dimenticare mi hanno tanto favorevolmente colpito che quasi quasi lo leggerò.
Mi ha poi stupito l'interesse verso la questione linguistica che contrappone le lingue indiane all'inglese, che invece avrei pensato di minore interesse per il pubblico del Salone. A moltissimi autori è stato chiesto perché scrivono nella lingua coloniale che non è la loro "vera" lingua madre né la lingua dei loro protagonisti, tanto che alla fine mi è venuto da pensare: ma lasciateli un po' scrivere come vogliono!
In effetti, gli autori in lingua inglese hanno dominato la scena: ci sono stati alcuni rappresentati delle letterature in lingue indiane negli incontri "India sconosciuta" (per l'appunto), anche se decisamente relegati rispetto ai grandi nomi internazionali.
In particolare, bellissime le poesie in lingua bengali di Dhananjay Ghosal e quelle in punjabi di Sutinder Singh Noor.
E ora, dopo tanti incontri, tanti titoli, tanti nuovi nomi, mi viene voglia di fermarmi e stare un po' lì a pensare, rimuginare e fantasticare prima di attaccare a leggere il prossimo romanzo.
E' sempre imbarazzante trovarsi di fronte al lato economico del mercato editoriale; vedere i propri scrittori preferiti solo per qualche minuto perché sono di corsa, poi devono incontrare Tizio, Caio, il fotografo, ecc.
RispondiEliminaPerò queste sono forse le uniche occasioni che si concedono al pubblico e quindi occorre fare di necessità virtù, ma soprattutto forse fa anche bene, ogni tanto, ricordarsi che esiste un mercato librario con i suoi meccanismi promozionali e le sue logiche economiche. Certi meccanismi è meglio che non siano del tutto nascosti.
Alessandro, sì, sono d'accordo: se nessuno facesse qualche soldo con i libri, nessuno li pubblicherebbe... e il risvolto economico ha una importanza fondamentale.
RispondiEliminaA Torino penso sia anche una questioni di dimensioni, per cui i risvolti economici sono molto evidenti!
Certi altri festival meno grandiosi rispetto a quello di Torino in effetti riescono a mantenere una dimensione più umana, in cui è anche possibile scambiare quattro chiacchiere con un autore.