Il Palazzo degli specchi

di Amitav Ghosh

Il secolo breve visto dall'altra parte
 
Un secolo che non conosciamo. Il secolo che pensiamo di conoscere meglio, il Novecento, visto da un’angolazione diversa: con gli occhi dei colonizzati, degli spodestati, dei profughi. Con gli occhi di chi, a nostro modo di pensare, non ha fatto la Storia. Quella Storia studiata sui libri di scuola, in cui la Birmania e l’India entravano in scena solo nel momento della conquista e in quello dell’indipendenza, come se in mezzo ci fosse sole un grande vuoto. Eppure, quanta Storia hanno visto quegli occhi, quanta ne hanno subita e, soprattutto, quanta ne hanno fatta.
 
Per fortuna però, ultimamente sembra esserci un maggiore interesse verso l’altra parte del mondo. Per fortuna le nostre librerie iniziano ad accogliere le storie degli scrittori di quelle terre lontane sempre più vicine. E per fortuna Ghosh ha scritto Il Palazzo degli specchi.
 
Amitav Ghosh, nato a Calcutta, ha vissuto in molti posti diversi fra loro (India, Bangladesh, Sri Lanka, Iran, Oxford, Egitto, Cambogia, New York) e sicuramente i contatti con diverse culture non possono fare che bene a uno scrittore. Culture diverse eppure mai in contrasto, pensate e vissute nei suoi libri ogni volta con lo sguardo di antropologo, giornalista, scrittore.

Pubblicato nel 2000, dopo cinque anni di lavoro, Il Palazzo degli specchi, è stato definito dall’Indipendent “un Dottor Zivago dell’estremo oriente” ed è stato particolarmente apprezzato dalla critica letteraria internazionale.

La vicenda si svolge a partire dal 1885 proprio quando, come nei nostri libri di storia, la Birmania viene invasa dagli inglesi e assoggettata all’impero britannico. La descrizione della vita all’interno del palazzo reale (il palazzo degli specchi del titolo) e della sua conquista rimangono fra le pagine più belle del libro. È in questa occasione che Dolly, bambina al servizio della regina birmana spodestata, e Rajkumar, giovane orfano indiano venuto a cercar fortuna in Birmania, si incontrano, dando vita a una serie di storie che, in una lunga saga familiare, si snodano fra Birmania, India e Malesia.

A tenere salda la complessità della narrazione che si perde lungo i decenni intervengono le diverse personalità dei protagonisti e i loro atteggiamenti di fronte a un mondo che si trasforma e che, inevitabilmente, li trasforma.
Seguiamo così Dolly in India, in esilio insieme alla famiglia reale birmana, la sua amica indiana Uma che a poco a poco deciderà di dedicare la sua vita alla politica, la trasformazione di Rajkumar da orfano senzatetto a ricco uomo d’affari, le sue fortune commerciali con il legname in Malesia, le difficili scelte di Arjun, ufficiale dell’Esercito nazionale indiano, la ritrosia di Dinu e il suo amore per la fotografia.
 
Tutti devono misurarsi con le scelte che il colonialismo li costringe a fare: c’è chi ne viene distrutto e annientato, chi trova nella lotta il suo scopo di vita, chi tramite le sofferenze alla fine scopre se stesso e chi, da colonizzato, sfrutta a sua volta il colonialismo. Il romanzo si chiude però sulla figura di Dinu, figlio di Dolly, che preferisce invece rimanere ai margini degli eventi, rinunciando anche a cambiarli. Dinu è infatti un fotografo che sembra sottrarsi alla vita per dedicarsi esclusivamente all’arte, ma paradossalmente la fotografia è proprio l’arte del documentare, l’arte della memoria. Ed è la memoria a fare la Storia.

In quasi tutti i momenti la narrazione è molto densa e affascinante, ma se proprio vogliamo essere critici, possiamo osservare che certe pagine in cui Ghosh riassume in poche righe le vicende di alcuni decenni di un personaggio non sono particolarmente efficaci. Forse in questi casi sarebbe stato più convincente uno stacco netto e una ripresa trent’anni dopo, come invece altre volte l’autore sceglie di fare.
 
Potremmo anche aggiungere che certe pieghe della trama appaiono un po’ forzate: come in India usano i matrimoni combinati, sembra quasi che Ghosh combini i matrimoni e le storie d’amore fra i suoi personaggi, in modo da far quadrare la storia e creare legami altrimenti inverosimili. D’altra parte però, non si può certo porre limiti alla fantasia o giudicare certe scelte narrative perché, come diceva Pirandello, spesso la vita è meno verosimile dell’arte.

Perdoniamo quindi l’autore per questi piccoli difetti, anche in virtù del minuzioso lavoro di ricostruzione storica che lo ha portato alla lettura di libri e documenti, alla riscoperta delle memorie familiari e alla ricerca di moltissimi testimoni durante diversi viaggi in India e nel sud-est asiatico.
Proprio per questo, possiamo leggere Il Palazzo degli specchi in vari modi, a seconda dei nostri interessi e della nostra personalità: possiamo vederlo come una ricostruzione storica accurata, come un invito alla presa di coscienza di noi stessi, come una riflessione sul colonialismo, sulla storia e sulla politica, oppure, semplicemente e inevitabilmente, come una lunga e affascinante storia che ci rapisce e incanta.

Commenti

  1. Sì, è vero. Noi studiamo la Storia dal nostro punto di vista. Della storia dell'Asia non sappiamo niente, eppure poi giudichiamo sempre i vari fatti che ogni tanto ci arrivano da laggiù con presunzione ed ignoranza.
    Il palazzo degli specchi è piaciuto molto anche a me, proprio perché mi sono addetrato con occhi diversi in un continente di cui sappiamo ben poco...

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  2. Quello che mi piace in Ghosh e' il suo stile, come dire da vecchia Hollywood, un po' come i film di David Lean o John Ford. Questo stile classico e minuzioso, nel costruire gli eventi e i personaggi. Questo almeno è quello che mi ha colpito leggendo "Mare di papaveri" "Il paese delle maree" e "Il palazzo degli specchi" ... ora ho in attesa "le linee d' ombra" ...

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